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Riflessioni da Sainte-Soline

I cosiddetti “megabacini” (megabassines) sono giganteschi laghi artificiali — plastificati e che quindi isolano l’acqua immagazzinata dall’habitat circostante — moltiplicatisi negli ultimi anni in Francia per rispondere ai bisogni dell’industria agroalimentare e presentati dai poteri pubblici come una soluzione per adattarsi ai cambiamenti climatici. Con una dimensione fra gli 8 e i 18 ettari, vengono riempiti durante l’inverno per permettere l’innaffiamento dei campi durante i periodi di maggiore stress idrico. Il loro riempimento non avviene soltanto raccogliendo l’acqua della pioggia, come spesso vogliono far credere i loro promotori, ma anche pompandone dalle falde acquifere e dai fiumi vicini. Viene così fortemente alterato l’equilibrio idrico dei territori, attraverso il “furto” di acqua da certe terre e generando una perdita netta dovuta all’evaporazione dai megabacini (stimata fra il 20% e il 60%). Per questi motivi, i progetti dei megabacini vengono considerati, da diversi movimenti ecologisti francesi, come una vera e propria “fuga in avanti” per mantenere a ogni costo un modello agroindustriale devastante per i territori e per chi li abita.

La costruzione di uno di questi megabacini ha messo Sainte-Soline, comune del centro-ovest francese di 350 abitanti, al centro delle proteste ecologiste. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo diverse manifestazioni nella zona del cantiere, fino ad arrivare alle giornate del 25 e 26 marzo, dove circa 30.000 persone si sono radunate per mostrare la loro opposizione a questo progetto e a ciò che esso rappresenta.

Una di noi era là, e ha voluto raccontare la propria esperienza e i propri pensieri, che condividiamo di seguito.

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Sainte-Soline è stata una vera e propria battaglia. Ma non è stata soltanto questo: è stato anche un momento di unità e rabbia tra movimento ecologista e militanti provenienti da tutta la Francia e da tutta l’Europa, è stata un momento di profondi dibattiti e riflessioni sull’urgenza di agire, sabotare, lottare per il clima, per l’acqua, per le pensioni, per le nostre vite. Lo scorso 25 marzo, Sainte-Soline è stata lo specchio della potenziale forza delle masse, ed è stata lo specchio di cosa lo stato democratico sia disposto a fare pur di difendere il proprio potere. Sì, perché non era quel bacino in costruzione che quei tremila poliziotti e le sue cento camionette avevano il compito di difendere, ma il potere di uno stato che fa difficoltà a mantenere il controllo sul proprio territorio, sulle proprie strade, e anche sui propri luoghi e dispositivi di potere (ad oggi in Francia non bruciano solo i bottini dell’immondizia, ma anche alcuni municipi e camionette della polizia).

Dopo il campeggio, le assemblee e i blocchi di strade e di binari che si sono tenuti il venerdì, tre cortei sono partiti il sabato mattina. Uno (rosa) che voleva essere uno spazio sicuro per chiunque, uno (blu) mirato ad attuare dei sabotaggi prima di attaccare il bacino e l’altro (giallo) che puntava direttamente al bacino.

All’arrivo in prossimità del bacino, davanti allo schieramento militare che si stagliava davanti a noi, l’agitazione si sentiva palpabile e si esorcizzava a battiti di mani, cantando a piena voce all’unisono, al suono di tamburi, trombe, fisarmoniche e chissà quale altro strumento che qualche mattə aveva portato con sé. La forza della rabbia collettiva riecheggiava ovunque e permetteva di avanzare — tenenendosi per mano per tirarsi fuori vicendevolmente dal fango — un gruppo compatto, sospinto da ideali e non dagli ordini di un qualsiasi capo-reparto che ne decidesse le sorti.

I lacrimogeni hanno iniziato a volare ovunque fin da subito, così come gli idranti e le granate. E due parole sulle granate vanno spese, perché per chi, come me, in Francia non ha mai partecipato ad una piazza, sono state qualcosa di raggelante. I poliziotti francesi dispongono di due tipi di granate: quelle sonore (flashbang o stun grenade), che esplodono stordendo, e quelle dette “di désencerclement” (letteralmente “di disaccerchiamento”), vere e proprie granate a frammentazione che al momento dell’esplosione lanciano pezzi di caucciù tutto attorno a sé, infilzando braccia, gambe, occhi o qualsiasi cosa becchino a chi ci stia attorno. L’utilizzo di queste armi ha già causato morti e mutilazioni in Francia e da quanto ci dicevano sono state utilizzate in maniera sempre più normalizzata dal dilagare del movimento dei gilets jaunes in poi.

Arrivati al bacino, mentre il corteo giallo avanzava e premeva contro il cordone della polizia, il corteo blu è riuscito nell’intento di sabotaggio, distaccando un tubo enorme che poi è stato utilizzato come ariete (ops!). Da quel momento è partito l’assalto collettivo al cantiere e la vera e propria guerriglia. Da una parte, c’era una pioggia costante di lacrimogeni e granate, sia vicino che a distanza (anche sui feriti), sparati in aria e ad altezza uomo, mentre dall’altra si rispondeva con nugoli di pietre  e non solo, finendo con camionette e poliziotti in fiamme.

La prima linea del cantiere è venuta giù, ma sfondare era pressocché impossibile per la nube costante di lacrimogeni, che impediva a chiunque non avesse una maschera anti-gas di avvicinarsi. L’avanzare e retrocedere è proseguito per un bel po’, finché membri della Brav-M (Brigate motorizzate di repressione di azioni violente) non sono arrivati con i quad a sparare lacrimogeni e granate da dietro, causando un certo allentamento della pressione da parte dei manifestanti. In quel momento si è deciso di fermarsi per lasciare spazio al soccorso dei feriti. Si è valutato poi che la quantità di feriti era troppo grande e i medici troppo pochi quindi, nonostante gran parte delle persone volesse riattaccare il cantiere, si è deciso di ritornare indietro, andando a sabotare altre tubature e pompe un po’ più distanti dal bacino (non senza qualche altro momento di lanci di pietre e materiale pirotecnico, espressione delle varie anime della piazza, uno spontaneismo che significa anche prendere decisioni e stare in piazza in maniere diverse).

Nel frattempo, nelle retrovie alcune compagne e compagni avevano costruito una serra per un agricoltore della zona, a dimostrazione che le nostre forze erano così distruttive quanto propositive. E la parte propositiva è continuata nella serata in cui il vicino comune di Melle (3600 abitanti) è diventato casa per migliaia di militanti che hanno dormito nei parcheggi e nei prati del paese e hanno animato, danzando, la piazza in cui erano allestiti due mega tendoni e diversi bar, punti ristoro, un punto viola, una zona bagni con vecchiettə h24 lì a pulire e distribuire carta igienica, banchetti di associazioni e gruppi e di diffusione di materiale informativo su qualsiasi tema: dal Rojava al nucleare, dalle pensioni all’antifascismo.

Dal palco, a un certo punto, sono intervenute le organizzatrici. Ci sono state lacrime per i compagni e le compagne in pericolo di vita [ad oggi c’è ancora almeno una persona in coma, ndr], c’è stata la rabbia e il voler comunque rivendicare ogni passo fatto assieme e il non fermarsi della lotta. È stato anche espresso il desiderio di far arrivare a tutte le compagne presenti, provenienti da tutta la Francia e l’Europa, l’idea che ciò che è stato fatto a Sainte-Soline può riprodursi e moltiplicarsi in ogni angolo: le manifestazioni, i sabotaggi, le assemblee, la creazione di materiale informativo, la convergenza delle lotte, tutto.

Il giorno seguente, quel villaggio collettivo improvvisato ha ripreso vita tra caffè, pranzi sociali ad offerta libera e dibattiti. Assemblee di centinaia di persone hanno riempito il teatro, il cinema e varie sale di Melle dove vecchiettə e giovani, contadinə e militanti queer, operaiə, anarchichə, comunistə, sindacalistə e chiunque altro, quasi tuttə copertə di fango, hanno intessuto dibattiti e discussioni su come continuare ad agire sul mondo. All’assemblea a cui abbiamo partecipato noi, una signora anziana ha preso parola e, piangendo, ha chiesto scusa per non aver avuto il coraggio di stare davanti durante il corteo, ringraziando chi per lei l’ha fatto, e ha aggiunto che da persona non violenta non ha potuto che festeggiare quando la prima camionetta ha preso fuoco.

Sono quelle realtà, come in Val Susa, che ti colpiscono, facendoti capire come tante persone, dopo aver vissuto sulla propria pelle la violenza dello stato, aver visto le devastazioni delle proprie terre e della propria casa e le ferite dei compagni e compagne di strada, scelgono che il momento del rispetto per chi decide coscientemente di massacrarti è semplicemente finito.

Il bilancio dei due giorni è stato vario. Il movimento si è preso il suo spazio, ha dato una chiara prova di forza e ha creato momenti di condivisione e dialogo. La copertura mediatica della sua presenza – e anche degli abusi polizieschi – è stata ampissima. Chiunque sia statə lì in quei giorni è tornatə a casa con una forza dentro che probabilmente non sentiva prima, e penso sia anche questo lo scopo di ritrovarsi e camminare assieme: sentire di non essere solə in questa lotta impari contro lo schifo di questa società.

Dall’altra parte, ci sono risvolti negativi: lo stato francese, davanti alla forza del movimento ecologista, così come davanti alla forza del movimento contro la riforma delle pensioni, ha tirato dritto e sembra non farsi scalfire, anzi, risponde con una violenza sempre più inaudita, con buona pace dei diritti umani, leggi, convenzioni, costituzioni e valori democatici. Nel caso di Sainte-Soline impedendo addirittura l’arrivo delle ambulanze per un’ora e trenta, mettendo a serio rischio la vita di almeno due persone, una delle quali intubata sul posto dopo ore di attesa.

Una persona ha perso l’utilizzo di un occhio, altre due sono finite in coma a lottare per la vita in ospedale, e centinaia sono state ferite e/o hanno vissuto vari stati di shock.

La domanda allora sorge spontanea: vale la pena morire o restare mutilatə a vita per lottare contro un bacino idrico? E per un treno ad alta velocità? Per due anni di pensione che tanto non vedremo mai? Per bloccare un G8? Zittire un fascista? Occupare una casa? Forse per una singola di queste cose no, ma per tutto, per tutto sì. Perché se non fossimo dispostə a mettere in gioco le nostre vite e le nostre fedine penali per ogni singola azione, non faremmo più nulla e il vuoto del decoro, l’oppressione del capitale e lo strapotere delle classi dominanti non avrebbero più argini.

Nonostante le contradizioni, non posso proprio pensare che sia stato sbagliato assaltare quel cantiere, così come sabotarne le tubature in mezzo a granate e lacrimogeni che piovevano da ogni dove. Questo modo di agire — che è dilagato in Francia nelle ultime settimane — ha generato rapporti di forze sbilanciati, per una volta, verso il lato di chi lotta dal basso e non di chi reprime. Per quello non vedo alternative alle scelte prese a Saint-Soline, perché legge formale e legge materiale sono due cose ben diverse. Basta guardare anche l’Italia, in cui le leggi scritte sono abbastanza omogenee ovunque, ma poi ogni regione e città ha dinamiche completamente diverse basate, appunto, sui rapporti di forza stabiliti: dalla possibilità di occupare spazi abbandonati all’applicazione della repressione amministrativa, dalle limitazioni delle questure alla libertà di manifestazione alla presenza più o meno invadente delle forze dell’ordine in determinati quartieri.

Se nel momento di massima repressione di una piazza la risposta è un passo indietro per paura, la repressione ha già vinto. Dovremmo invece essere sempre capaci di ingoiarci le lacrime, ragionare sugli errori e rilanciare in maniera sempre più determinata e ancora più efficace.

La forza di questi due giorni a Saint-Soline non è stata solo nelle molotov come non è stata solo nelle assemblee, ma bensì nella sua interezza: dallo sfidare i posti di blocco in entrata e in uscita, autorganizzandosi attraverso un’infoline, alla cura messa nel creare dei momenti di decompressione e sostegno psicologico, all’autogestione degli spazi, all’attenzione verso quei prati su cui nemmeno una sigaretta trovavi a terra (in mezzo a quattromila bussolotti di lacrimogeni e granate!), alle bande che

suonavano in mezzo alle cariche così come in serata, alle mediche che correvano da tutte le parti, cadendo nel fango in continuazione pur di prestare soccorso.

In una delle assemblee, qualcuna ha detto che non ha senso chiedersi che mondo vorremmo domani perché lo stavamo costruendo in quel momento nell’azione: con il mutualismo, con la solidarietà, con il sostegno alle produzioni dal basso, con l’autotutela collettiva, con la forza che ci davamo vicendevolmente. Penso stia tutto lì. A Sainte-Soline, come in altre situazioni del genere, quel mondo diverso che di solito riusciamo a creare in piccoli gruppetti e piccoli spazi, è stato davvero qualcosa di largo, partecipato e tangibile, ed è la cosa più forte con cui ritorno nella ridente Trst.