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25 aprile: cosa dire (e fare) di fronte all’orrore che ci sta attorno

Alla fine il corteo del 25 Aprile siamo riusciti a farlo. Avevamo chiarito dall’inizio le nostre intenzioni e così è andata: evidentemente qualche ragionamento qualcuno se lo sarà fatto nei locali della questura. Di fronte alle centinaia di persone convenute, e a un certo livello di determinazione e coscienza, qualcosa hanno dovuto concederlo. Possiamo vederla anche al contrario: è sempre possibile strappare qualche metro di strada, o qualche ora di tempo, con la giusta dose di volontà collettiva. Non tutto può essere controllato con lo scudo e il manganello, o qualche pezzo di carta timbrato.
Alla fine anche di questo si tratta nella nostra pratica militante. Rompere i tempi e gli spazi della quotidianità dietro cui si nasconde l’orrore dell’epoca in cui viviamo. Il 25 Aprile, per noi, non poteva che essere questo: mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio della commemorazione che, svuotando il ricordo (e forse dovremmo dire la trasmissione delle pratiche e dei valori) della Resistenza, vorrebbe normalizzare anche il presente. Lo ricordiamo quindi ai cravattari e agli ipocriti, ai poliziotti di ogni epoca e ai commentatori, anche perché gli altri – eredi postfascisti del regime, che siedono tra i banchi del governo – lo sanno già molto bene e ancora commemorano i loro morti (o non se ne accorgono i sarti e le carogne ogni 10 febbraio?): la Resistenza è stata insurrezione popolare, riscatto contro il nazi-fascismo, guerra di liberazione, fatta di boschi, strade e violenza contro gli oppressori; bestemmie, lacrime e sangue.
Qui dalle nostre parti, in particolare. È l’eroica resistenza del TIGR (oggi li metterebbero al 41 bis), degli scioperi operai (Salvini gli farebbe la precettazione) e della lotta (armata) comune, oltre le lingue e le linee di confine, anche contro i collaborazionisti e i profittatori dell’ultima ora, quando ad esempio – a regime caduto – si trattava di recuperare la struttura dello stato fascista in chiave anticomunista.
A chi pensa che – passate diverse decadi – si possa trattare la Resistenza come un fatto risorgimentale e pulito, gestito da buone borghesie e in perfetto ordine democratico, rispondiamo con i fatti, e anche con qualche bombone. Rispondiamo che di quegli anni preferiamo ricordare, e imparare, altro: lo slancio verso la liberazione, le comunità che si sollevano contro gli oppressori, lo spirito fraterno che si instaura tra i e le ribelli.
Belle lezioni, che ci insegnano anche – se solo si superassero le parole con le maiuscole: la Democrazia, i Valori, la Libertà, ad uso e consumo della mistificazione della storia e della realtà – l’importanza di attaccare le strutture del dominio (nazifascista, sia mai che qualcuno pensi ad un’istigazione, quando è solo apologia). Tradotto: le infrastrutture e la logistica dell’economia di guerra (i treni, ad esempio, non ancora ad alta velocità), come anche le sedi dei giornali collaborazionisti, i palazzi del governo, le strutture della repressione, le caserme e ogni altro dispositivo legato all’oppressione.
Cosa credete che attaccassero i partigiani? Sta fregna? 
Come credete che rispondessero quelli attaccati? Urlando alla diserzione, al terrorismo, ai modi scomposti; con le rappresaglie, la militarizzazione, i tribunali speciali e una buona dose di propaganda.
Ecco, ognuna a casa, o in strada, con le proprie letture. Ognuna a casa con le proprie scelte: una perquisa per entrare in Risiera o un corteo determinato, ad esempio. Perché anche su questo qualcosa, prima o poi, andrà detto: com’è che la Risiera, il 25 Aprile, da fatto sociale di memoria e comunità, si è tradotta in una caserma al servizio dei parrucconi? Li si potrà almeno mandare affanculo, o valgono solo le carte bollate in questo tempo che miscela, come solo la banalità del male è in grado di concepire, il pensiero perbenista e le stragi?
Un miscuglio pericoloso, quello tra benpensanti e apologeti di decoro e sicurezza, che apre la porta a nuovi fascismi lasciandogli spazio. Servivano le prove? Nella notte il monumento ai caduti della resistenza al cimitero di Sant’Anna viene imbrattato: “25 Aprile lutto nazionale” si legge scritto sopra la stella rossa e l’elenco dei caduti. Quella mano dice molto di più di quanto ci fanno credere: per chi – ed è una società intera ad andare in quella direzione – sta dalla parte della stretta autoritaria e guerrafondaia del nostro tempo, come può la Resistenza non essere lutto nazionale?
Ad ognuno i suoi lutti, a noi le nostre lotte!
Ma parliamo pure del linguaggio scurrile degli antifa, della macchina della municipale fermata in parcheggio, depistiamo e sviamo il discorso, così che quella scritta scompaia dalla memoria collettiva, non faccia incazzare né sollevi domande o azioni di protesta. 
Perché, alla fine, il cuore della questione è uno. Cosa dire, e quando possibile fare, di fronte all’orrore che ci sta attorno? Al genocidio automatizzato di Gaza, all’imprigionamento sociale, alla normalizzazione delle stragi in mare e lungo la rotta balcanica. Ai cpr, alle carceri. Alla mobilitazione permanente verso la guerra, che ci passa accanto, nelle ferrovie, nei porti, nelle industrie. Alla devastazione dei territori. Al capitalismo che ci spreme attraverso il lavoro salariato e il consumo obbligato, e che schiaccia i più poveri per impedire che alzino la testa.
Lo chiediamo anche ai sarti della bella civiltà, che – sordi ai discorsi e ai temi portati da chi vuole mettere in discussione il funzionamento del sistema – preferiscono scandalizzarsi per una bestemmia o per un petardo. Uno slogan dà semplicemente conto della gravità dei tempi. Qualcuno la sente, altri ci guadagnano: ecco tutta la differenza, ecco il vostro scandalo.
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25 Aprile: la Questura provoca ancora

A distanza di un anno, la storia si ripete, questa volta come farsa: dopo aver cercato di mettere al bando l’antifascismo nel suo giorno d’elezione e aver clamorosamente fallito, quest’anno la Questura giuliana ci delizia con il vecchio trucco della finta disponibilità. Nonostante l’avviso giunto con largo anticipo e le interlocuzioni verbali avvenute nella massima disponibilità, al momento di arrivare al dunque anche quest’anno scattano le prescrizioni per lx antifascistx.

Un breve riassunto dei fatti: il 16 marzo con una mail comunicavamo alla Questura la nostra volontà di organizzare un corteo antifascista con partenza da Campo San Giacomo alle 9 e arrivo in Largo Martiri della Risiera dopo essere transitati per via dell’Istria […] via di Servola e Ratto della Pileria. Circa un mese dopo, la Questura ci rispondeva, esprimendo perplessità sia riguardo all’orario di partenza che al percorso prima per via telefonica e poi convocando un incontro con la dirigente della locale Digos. Durante la chiacchierata, di fronte alle richieste della Questura, ribadivamo come per noi l’orario di partenza fosse fondamentale, mentre riguardo il percorso ci dicevamo più flessibili: per quanto ci piacerebbe poter scendere Ratto della Pileria, si poteva valutare un giro più lungo, attorno allo stadio, venendo così incontro alla loro esigenza di ridurre il numero di persone intorno alla Risiera, che quest’anno vede per la prima volta l’applicazione di nuove regole di sicurezza e quindi un tetto massimo agli ingressi e potenzialmente una presenza più massiccia di persone all’esterno (secondo la Questura). L’incontro si scioglie con promesse e rassicurazioni, ormai possiamo dire “le solite”.

Nelle prescrizioni arrivate ufficialmente il 15 aprile si “prende atto” delle esigenze espresse dagli organizzatori, ma nei fatti, poi, non si recepisce né viene incontro su nulla. Prescrivendo di “effettuare il preannunciato corteo il 25 aprile prossimo, con concentramento in Campo San Giacomo e partenza non prima delle ore 12:00 seguendo via dell’Istria […], via di Servola, via Carpineto, via Valmaura, via Flavia, via Milani ed arrivo in Largo Martiri della Risiera […] terminando entro e non oltre le ore 15” per il secondo anno consecutivo la Questura cerca di mettere il bavaglio a un corteo antifascista proprio il 25 aprile. Vengono prescritti orari e percorso modificati, a quel punto potevano anche non convocarci la volta prima.

Vogliamo che il corteo sia in contemporanea alle celebrazioni ufficiali perché vuole rappresentarne un’alternativa e una critica. Che il 25 aprile sia ormai una vuota e sterile pantomima, buona per mettersi la coscienza a posto a destra come a sinistra, non serve neanche perder troppe parole a ricordarlo.

Sono proprio le istituzioni locali a portare avanti per prime, nel quotidiano, atteggiamenti fascisti: nell’arroganza del Comune verso i comitati e collettivi cittadini che esprimono critiche e contrarietà sui progetti di gestione dei beni pubblici ed attraverso la marginalizzazione di migranti e persone in difficoltà; nella continua spirale repressiva della Questura, che da anni ormai va contraendo sempre più il diritto a manifestare, e nella persecuzione delle soggettività “scomode”, prostrandosi così ai desiderata di Comune e Regione nel creare una città-vetrina sempre più grande e sempre più a uso e consumo di turismo, speculazione, consumismo.

Come si possa pensare, infatti, che prescrivere un corteo il 25 aprile tra le 12 e le 15 per nessun’altra ragione che non salvaguardare il viavai di auto blu – perché questa è l’unica valida ragione che si scorge, tra le righe del solito “safety and security” e il provvidenziale paravento delle nuove norme antincendio che impongono una capienza massima dentro la Risiera risulta del tutto incomprensibile a chi il 25 aprile l’abbia celebrato anche solo una volta nella vita.

In aggiunta viene anche prescritto un percorso più lungo, che faccia arrivare il corteo in Risiera girando intorno allo stadio e non scendendo direttamente da Servola come era invece stato comunicato. Non avremmo avuto problemi ad integrare il cambio di percorso proprio per venire incontro alle esigenze di Questura e Prefettura di non affollare l’area antistante alla Risiera dal lato di Via Valmaura: l’applicazione di entrambe le misure è irricevibile, in quanto vuole relegare il corteo ad un orario in cui perde di significato ed incisività, mira a renderlo invisibile a chi partecipa alle celebrazioni ufficiali, silenziando e nascondendo agli occhi di cittadinanza e stampa lì presenti gli interventi e le critiche che il corteo porrà.

Evidentemente la Questura quest’anno cerca di non replicare la becera figura dell’anno scorso quando una gestione della piazza criminale aveva visto camionette e schieramenti antisommossa tentare di bloccare non solo il corteo ma anche l’accesso alla Risiera stessa mettendo piuttosto la maschera democratica di chi a parole tutela il diritto a manifestare, a patto che lo faccia obbedendo a tempi e percorsi scelti da loro.

Questo tentativo di imbrigliare le espressioni di dissenso in gabbie di orari e strade, pensate per nascondere e sminuire i contenuti e le richieste che i movimenti portano, non è nuovo e non si limita al 25 aprile per quanto misure restrittive alla libertà di manifestare risultino in questa giornata ancora più surreali del solito ma sono approccio ormai diventato prassi.

Da anni è quasi impossibile organizzare presidi e cortei in centro con motivazioni sempre più fantasiose, inclusa quella di non arrecare disturbo allo shopping.

Al contempo, la macchina della repressione si muove con forza sempre più spropositata: dagli schieramenti di agenti antisommossa in ogni occasione alle denunce che piovono con imputazioni esagerate e circostanziali, con ben pochi risultatati tangibili una volta arrivati in tribunale.

Un occhio meno attento, più malizioso o forse più propenso a vedere trame inesistenti parlerebbe persino di provocazione poliziesca, perché è del tutto naturale che come collettivo non abbiamo nessuna intenzione di accettare queste prescrizioni.

Ribadiamo quindi la nostra ferma intenzione di svolgere un corteo antifascista nella giornata più simbolica dell’anno.

L’appuntamento resta dunque per il 25 aprile alle ore 9 in Campo San Giacomo, più determinatx che mai, per dimostrare il nostro rifiuto e rimandando al mittente ogni ricatto poliziesco.

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Aggiornamenti dal CPR di Gradisca

Sappiamo quali siano le condizioni del CPR di Gradisca, di ogni lager di quel tipo. La tortura e la segregazione sono il loro ordine di funzionamento. Lo vediamo quando cerchiamo di portare qualche pacco ai reclusi all’interno: forze di polizia di ogni tipo, in costante tenuta antisommossa, a governare la macchina dell’internamento e della deportazione con il manganello.

Sappiamo anche quanto i reclusi all’interno siano combattivi e resistenti: le rivolte sono continue, i tentativi di evasione si susseguono. Viva la libertà!

Scriviamo tutto questo perché sappiamo che in questi minuti due persone, in un tentativo di evasione, sono salite sul tetto, braccate dalle guardie sotto. Minacciano di gettarsi nel vuoto, a questo sono costretti. Ci sono proteste in corso.

Mandiamo il nostro caloroso abbraccio a tutti i reclusi, a tutti i resistenti. E che tutti sappiano, così almeno da evitare i loro maledetti insabbiamenti, il silenzio in cui vogliono confinare le vite tra quelle mura!

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Solidarity not charity – Costruire comunità di resistenza

Dopo l’importante iniziativa di ieri, condividiamo alcuni pensieri, consapevoli che la questione del Silos non è un momento marginale, episodico, delle dinamiche complessive che vengono portate avanti a Trieste. È una vicenda che si inserisce direttamente nelle trasformazioni e nei piani di sviluppo della città (e di Porto Vecchio in primis). Basti pensare a quella zona cittadina e alle sue contraddizioni: un centro-vetrina più impostato per lo sbarco delle crociere e per il turismo in generale che per la vita della cittadinanza; l’inutile e dannoso progetto dell’ovovia come unica proposta di “mobilità sostenibile”; la guerra ai poveri dichiarata dal crescente dispiegamento militare e di polizia (con il ghetto Silos come sfondo). Tutti questi elementi convergono vertiginosamente, mostrando il senso e gli effetti di quanto sta succedendo a Trieste.
https://www.youtube.com/watch?v=MYfuRm6Duo8
Di fronte a questi scenari, rivendichiamo l’importanza della solidarietà e della costruzione di esperienze autonome dal basso, anche rispetto ai flussi migratori: un modo per superare innanzitutto la gerarchia razzista che governa le realtà interne ed esterne alla frontiera. La giornata di solidarietà di ieri in Silos ha mostrato che è possibile costruire – anche solo per qualche ora – delle comunità resistenti, trasversali, di lotta e socialità.
Solidarity not charity, il titolo dell’iniziativa, indicava un approccio concreto per riconoscere e riconoscerci all’interno della questione. Lottare assieme, costruire una resistenza prima di tutto politica, una solidarietà di classe e non (solo) umanitaria.
Le persone del Silos sono le stesse che vengono sfruttate nei cantieri della città, nei servizi di delivery, nell’agricoltura, a Trieste e altrove. Che si battono con il sindacalismo di base nei magazzini della logistica contro l’ipersfruttamento del settore, che finiscono nell’inferno dei CPR, e che non cedono neanche di fronte alla violenza più cieca della tortura, perché magari – un giorno – si troveranno senza documenti. Si tratta delle stesse persone che subiscono la violenza della polizia e delle sue istituzioni: per il rinnovo di un permesso di soggiorno o per un controllo in strada, in una guerra interna al povero, al diverso, a chi si ribella.
La situazione del Silos non è dunque solo il risultato dell’inazione del Comune, che pure come segnalato nella giornata di ieri avrebbe tutti gli strumenti per offrire riparo e conforto a chi ne ha bisogno. Lì a fianco c’è una struttura che lo permetterebbe fin da ora, ma evidentemente gli interessi sono altri. C’è la volontà di mantenere e tenere sotto controllo centinaia di persone in arrivo dalla rotta balcanica, in condizioni di sfruttamento e dipendenza, per renderle forza lavoro ricattabile come popolazione di scarto.
Di testimonianze e storie ne conosciamo a migliaia. Metterle assieme, per costruire esperienze di solidarietà, è ciò che può rompere questo meccanismo di segregazione e isolamento, utile solo a mantenere il sistema di oppressione di classe che governa le nostre vite.
Battersi contro il regime delle frontiere e dello sfruttamento è soprattutto una questione politica, non di umanità. È riconoscere le medesime condizioni di sfruttamento e controllo nell’intera società, trovando le alleanza possibili – e auspicabili – per combatterle. Concludiamo dunque portando la nostra solidarietà a due episodi di lotta, a due “incidenti” nell’ordine normalizzato:
– la lotta ai CPR come meccanismi di segregazione razzista dello stato, con il recente arresto di Jamal: resistere alla macchina delle espulsioni è possibile! Il nostro abbraccio a lui e a chi lotta.
– la giornata del Brennero del 7 maggio 2016, in cui una manifestazione blocca la frontiera italo-austriaca in seguito all’annuncio della costruzione di un muro anti-immigrati al confine. Una proposta che si inseriva nell’ottica complessiva del controllo e della violenza di frontiera lungo tutta la rotta balcanica. Una vicenda che a Trieste conosciamo bene, con tutte le conseguenze che continua ad avere sulle persone in movimento. Fra poco la Cassazione sarà chiamata a decidere sulle condanne a decine di militanti a oltre 100 anni di carcere complessivi. Solidarietà, una volta di più, con chi lotta contro questa sistema di devastazione e guerra!
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Sempre al fianco di chi ancora ci crede, sempre al fianco di chi lotta!

Esprimiamo solidarietà e vicinanza alle compagne e ai compagni di Corsica, della Magni*fica, delle Favoloske e dello Studentato Occupato di Firenze, che continuano in questi ultimi mesi ed anni a tentare di resistere alla violenza poliziesca e a rispondere ad ogni sgombero. 
Scriviamo questo comunicato per due ragioni: da un lato dare una restituzione di ciò che sta accadendo a Firenze a chi non conosce una realtà geograficamente a noi distante ma che ha, per varie ragioni, delle linee di contatto estremamente marcate con quella triestina e, dall’altra, per dimostrare il più grande sostegno e vicinanza a chi continua a rispondere con determinazione, amore e rabbia alla repressione dello stato, che si fa in ogni angolo d’Italia sempre più violenta e pervasiva. 
Ma quali sono i fatti?
Le compagne della Magni*fica, per tre volte negli ultimi anni, hanno cercato di riprendersi spazi pubblici abbandonati per costituire una casa delle donne transfemminista, e per tre volte sono state sgomberate a suon di manganelli e repressione, spesso per svendere quegli stessi edifici pubblici a nuovi proprietari privati. 
Le Favoloske, invece, in seguito ad uno spumeggiante Pride anti-istituzionale e intersezionale il 30 settembre, hanno deciso di rianimare un ex circolo con una Taz (Zona Temporaneamente Autonoma) di una settimana, per mostrare alla città come ci sia bisogno di spazi sociali in cui costruire dibattiti, assemblee, momenti di socialità e festa collettiva. Le forze dell’ordine anche qui non si sono fatte attendere e dopo un paio di giorni hanno deciso di sgomberare con la forza quella che sarebbe in ogni caso stata un’occupazione temporanea (lo stato, patriarcale com’è,deve ogni tanto mostrare i muscoli per sopravvivere e autoalimentarsi).
Ad agosto anche lo Studentato Occupato è stato sgomberato, uno spazio che da anni garantiva il diritto allo studio a ragazze e ragazzi che i prezzi astronomici di una stanza in affitto in città non se li potevano permettere, in un contesto in cui le case dello studente — come accade anche a Trieste — sono diventate soltanto nuove occasioni di privatizzazione e profitto.
Risale a un paio di settimane fa invece lo sgombero, effettuato a pistole in mano, di una ex banca in via Gramsci, spazio liberato dalle compagne dell’occupazione Corsica. A marzo 2021 la storica occupazione di viale Corsica 81, una ex scuola abbandonata, era stata sgomberata per poi venire rasa al suolo, all’unico scopo di mettere il terreno a disposizione della speculazione edilizia. Ma chi quello spazio lo aveva vissuto non si è lasciata abbattere, e dopo un corteo rabbioso, l’occupazione del tetto e un presidio stabile a Rifredi — il loro quartiere, la loro casa — è stato occupato un nuovo edificio, abbandonato da ben 8 anni, a pochi passi dalla vecchia casa. Anche questo edificio, con la violenta spinta del cosiddetto “Antiterrorismo” — sempre più usato in modo generale contro il dissenso politico — , è stato sgomberato ad agosto di quest’anno.
Perché tanta violenza? Perché tanta repressione?
Sembra che certi palazzi preoccupino molto alle istituzioni unicamente quando vengono occupati e ridonati alla collettività per creare spazi abitativi e sociali, biblioteche popolari, aule studio e luoghi di incontro e confronto. Pare invece naturale che quegli stessi palazzi vengano lasciati a marcire lungo le strade delle nostre città, diventando carne da speculazione, con il conseguente aumento degli affitti, e costringendo sempre più ai margini chi ai margini è già costretta a vivere.
Punirne uno per educarne cento, si suol dire. Perché chi mostra che è possibile strappare spazi all’economia neoliberista, alla speculazione, alle etichette, al decoro, allo spreco, deve essere punita. Non è ovviamente quell’edificio vuoto che viene rianimato il problema, ma il fatto che si possa intravedere un’alternativa, una breccia, una possibilità di stare assieme e vivere in maniera diversa. Questo è ciò che il potere punisce, reprimendo chi osa provarci per spaventare chi non ha ancora iniziato a farlo.
Ma non è vittimismo quello che vogliamo esprimere in questo comunicato, anzi tutto l’opposto. Ciò che vogliamo raccontare è il percorso di chi, nonostante gli sgomberi, le violenze e la repressione, ci crede e ci prova ancora!
Hanno manganellato uno spezzone ad un Pride? La risposta è stata un Pride indipendente, anti-istituzionale e intersezionale che ha permesso a compagne queer provenienti da tutta Italia di incontrarsi e camminare assieme. Hanno sgomberato l’occupazione di Corsica? E proprio da lì nascono momenti di aggregazione in piazza, presidi, concerti nelle strade, cortei e nuove occupazioni.
Un movimento, quindi, che osa rispondere agli sgomberi, alle manganellate, alle denunce, con determinazione e solidarietà, creando sempre nuovi spazi e momenti di socialità. Perché dove volevano paura, hanno generato rabbia; dove volevano deserto, hanno generato nuove forze per andare avanti. 
Trieste come Firenze?
Firenze, la città della gentrificazione e del turismo, e quindi delle tante cittadine e cittadini costretti ad allontanarsi dal centro e a frequentarlo solo per farsi sfruttare da un’industria del turismo sempre più di lusso. La Firenze degli Hotel, dei ristoranti e dei negozi esclusivi; dei locali a prezzi stellari che nessuna lavoratrice con uno stipendio normale può frequentare. La Firenze in cui anche un buco di monolocale di 20 metri quadri non si trova a meno di 600/700 euro al mese. La Firenze in cui il centro va infiocchettato, cacciando qualsiasi socialità diversa da quella dei bar e della movida.
Ma ora che Trieste si incammina sulla tanto prospettata strada della “città turistica”, dove finirà? Dove finiranno gli ultimi? Dove finiranno le persone “normali” che semplicemente 700 euro per un monolocale e 5 euro per uno spritz non se li possono permettere? Una Trieste in cui gli spazi di socialità alternativa semplicemente non esistono, in cui ogni edificio vuoto in centro o rimane tale per specularci o diviene un Hotel, preferibilmente di lusso. Una Trieste dove i pochi spazi verdi stanno venendo anch’essi svenduti mentre i triestini si ritrovano sempre più allontanati dalla città a favore di turisti e navi da crociera.
E chi prova ad aprire Brecce? Anche qui viene represso e perseguitato. Per cosa? Per mostrare come un’alternativa non sia possibile, per mostrare come i criteri del dio mercato siano gli unici . 
Il Giardino che era stato liberato e reso utilizzabile qualche anno fa in zona Cavana è ritornato ad essere sterpaglia, e dicono ora che ci faranno un albergo (sì, un altro!). L’ex Sacra Osteria, occupata per creare uno spazio di socialità alternativa e sgomberata in poche ore, è ancora lì vuota e decadente dopo 4 anni. Chi cerca di portare concerti e musica alternativa in città non trova spazi, chi cerca di portare la politica nel centro tendenzialmente viene manganellato o denunciato, perché il salotto buono deve restare intoccabile e distante dalla realtà di una società in cui i poveri sono sempre più poveri, dove centinaia di persone dormono per strada ogni notte e dove la politica partitica è sempre più distante dai bisogni reali delle persone.
No, Trieste non è Firenze, ogni città ha le sue peculiarità, ma il processo di gentrificazione e turistificazione che ci troviamo davanti sembra seguire di pari passo quello delle grandi città turistiche come Firenze, Venezia e Roma. Anche qui però, c’è chi non ha intenzione di farsi intimidire, c’è chi intende crederci, lottare ancora e rispondere alle violenze e pressioni poliziesche. Non sempre è facile e non lo sarà nemmeno in futuro, ma è anche l’esempio che ci arriva da altri luoghi che ci da la spinta per continuare a provarci. 
Ribadiamo ancora una volta la nostra solidarietà e vicinanza alle compagne di Firenze, e con allegria condiviamo le notizie che da loro sono arrivate sabato scorso: “Oggi abbiamo aperto un altro posto, per soffiare via la sabbia. Un luogo per chi guarda con sconforto, ma senza rassegnazione, al deserto che avanza: vieni a disertare anche tu!”
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Stecco libero subito! Viva la libertà!

Il compagno Stecco è stato arrestato qualche giorno fa dopo essersi dovuto nascondere per due anni a causa della macchina repressiva che gli si è scatenata contro. Molto attivo nelle lotte contro i confini e il sistema carcerario, vogliamo che si parli di Stecco per la persona che è e non per come lo dipinge la campagna mediatica, che lo descrive come un pericoloso terrorista, leader di un gruppo della criminalità organizzata.

Giornali che, senza un minimo di spirito critico, ricopiano le ridicole veline delle questure, le quali raccontano un certo tipo di militanza politica con le stesse forme di un’associazione mafiosa, adducendo a Stecco capacità di “leader”, compiti di “connessione con altre organizzazioni”, “logistica e propaganda”. Stecco è semplicemente una persona che scrive ciò che pensa e che intrattiene relazioni umane e politiche con altre persone, amici e compagne a cui lo legano affetti e ideali. In qualsiasi organizzazione anarchica non ci sono né capi né padroni ed è ridicola in generale la costruzione del mostro che è stata fatta col nostro compagno. Una narrazione e un livello di repressione ancora una volta spropositati: non vogliamo nemmeno provare a contare il denaro speso per arrestare una persona che, semplicemente, in gabbia non ci voleva stare. Stecco rischia moltissimi anni di carcere per aver partecipato ad una manifestazione contro le frontiere nel Brennero, per cui è stato condannato per reati minori come Resistenza o Interruzione di pubblico servizio, o per aver aiutato un compagno con dei documenti falsi. Per noi, militanti di diversa natura, la solidarietà disinteressata è la prima “arma” che caratterizza il nostro agire politico.

Oggi come sempre si svolge una caccia alle streghe alle compagne e ai compagni anarchic*, allo scopo di distruggere la spinta libertaria che lotta per una società giusta, basata sull’uguaglianza sociale e su un potere decisionale e orizzontale. Una spinta che si oppone apertamente allo Stato in quanto istituzione gerarchica e sfruttatrice la cui prima funzione è quella di proteggere sé stesso e le classi dominanti, anche – ma non solo – attraverso la violenza contro le classi popolari.

Uccel di bosco ha messo la sua libertà in gioco per lottare contro il sistema delle frontiere che impedisce il libero movimento delle persone, che le mette a disposizione dello sfruttamento di un mercato predatore e razzista. Nella convinzione che non sia un pezzo di carta – leggi passaporto – a renderci degni di vivere una vita libera e degna, Stecco è sempre stato in prima linea nella lotta contro i confini e ciò che rappresentano. Terrorista non è lui, ma gli Stati complici delle migliaia di morti nel Mediterraneo e sulla rotta balcanica.

Terrorista è lo Stato che reprime la dissidenza politica con ogni mezzo necessario, che incarcera le persone impoverite e costrette all’illegalità per sopravvivere. Carcerate e carcerati destinate a condizioni sanitarie pessime, morti premature, negazione della libertà, supplizio di Stato che raggiunge i suoi livelli massimi nella forma del 41-bis, considerata tortura perfino dall’Unione Europea. Nel frattempo, i veri criminali, quelli coi soldi, mantengono in uno stato di sfruttamento e ricatto tutta la classe lavoratrice e continuano a delinquere liberamente con il beneplacito dei politici.

Poi lo sappiamo quanto è labile il confine tra terrorista ed eroe nell’ipocrisia sociale. Terrorista è chi cerca di distruggere il potere, eroe è quando l’ha distrutto. Onore e reverenza a chi ha lottato per Trieste italiana mettendo le bombe sui treni austriaci – leggi Oberdan -, condanne di terrorismo a chi quel concetto di privilegio nazionalista lo vuole distruggere perchè consapevole che non sarà una Nazione a renderci libere e uguali. Stecco lotta per un mondo migliore, dove sia l’autogestione a organizzare la società in maniera orizzontale e senza soprusi. E noi con lui lottiamo.

Vogliamo Stecco libero e sorridente come noi lo conosciamo! Libere e liberi tutt*!

 

Compagne e compagni di Trieste
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Intifada fino alla vittoria

Il clima di criminalizzazione sulla questione palestinese sta raggiungendo livelli intollerabili. È una logica ormai collaudata, per cui se non sei allineato al pensiero neo-coloniale vieni messo automaticamente fuori dall’arco democratico. Cioè, nella sintassi odierna, sei un terrorista. O con l’Occidente e Israele (la autoproclamata “unica democrazia del Medio Oriente”) o con i terroristi. Questa la logica binaria in cui ci vogliono ficcare a suon di propaganda e forza militare. 
Noi invece non possiamo e non vogliamo dimenticare il contesto e i precedenti dell’attuale “conflitto”. Settantacinque anni di occupazione e apartheid, ovvero generazioni di persone nate, cresciute, morte e uccise all’interno di un regime di segregazione. Giogo, violenza e umiliazione perenni che hanno portato anche alla nascita di Hamas, un’organizzazione nazional-islamista finanziata, sostenuta e armata da dittature e regimi teocratici (e nel passato non troppo remoto anche indirettamente dal sionismo israeliano), il cui scopo è la mera vendetta
In questo contesto, ci piacerebbe potesse essere superfluo precisare che riteniamo l’operato di Hamas, specialmente quello recente, deplorevole, in quanto diretto contro civili a caso piuttosto che contro il potere costituito del sionismo.
Ma come possiamo giudicare ora reazioni e violenze, se nella retorica complessiva di questo conflitto non servono a nient’altro che a cancellarne la storia ed evadere il punto centrale? E cioè che in questa vicenda si tratta, al fondo, di un contesto di squilibrio di forze, di un rapporto coloniale, che non possono essere equiparate in nome dell’equidistanza.
Nella nebbia della logica binaria imposta può accadere di tutto, senza la benché minima reazione. Localmente, ad esempio, succede che il rabbino di Trieste dichiara, durante una manifestazione pubblica in piazza Unità: “Israele vincerà questa guerra […] Siamo davanti a una violenza motivata solo dall’odio contro un popolo. Questo tipo di odio in passato ha rischiato di distruggere l’occidente e rischia di distruggerlo ora”. Nel totale ribaltamento della storia, insomma, si invoca la crociata di civiltà contro il popolo palestinese, complice di resistere da decenni ai soprusi e alla guerra israeliana.
Nella stessa piazza, per due sere consecutive, dei ragazzi al fianco del popolo palestinese sono stati duramente repressi. Celere e Digos a fior di pelle, mani addosso, fermi: il pensiero guerrafondaio si mantiene anche con questo clima di criminalizzazione.
Ribadiamo dunque un paio di punti fermi. Solidali e complici con il popolo palestinese costretto a vivere in condizioni di apartheid e violenza nelle proprie stesse case e terre da quasi un secolo. Contro ogni forma di equiparazione della violenza palestinese davanti alla violenza israeliana. Contro la narrazione di uno stato israeliano “costretto a difendersi” mentre perpetra violenza, abusi, espropri e discriminazioni quotidiane nei con fronti della popolazione palestinese nel silenzio della comunità internazionale. Contro la complicità quotidiana occidentale e italiana con il fascismo dello stato israeliano.
Urleremo sempre: Palestina libera! Israele stato assassino!
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Lo scorso sabato militanti di Sinistra Classe Rivoluzione che stavano tenendo un banchetto informativo sono stati aggrediti da alcuni picchiatori fascisti. Come non potrebbe essere altrimenti, esprimiamo la nostra solidarietà, senza se e senza ma.

Ribadiamo ancora una volta la necessità di organizzare dal basso un fronte ampio, solido e solidale, di non delegare a nessuna istituzione l’antifascismo. I picchiatori di strada sono l’ultimo anello di una catena che inizia nei piani alti del potere economico e politico, sono le pedine più o meno consapevoli di uno status quo fatto di sfruttamento e controllo sociale. Combattere il fascismo è combattere per l’emancipazione di tutte e tutti.

Noi ci siamo e ci saremo, antifascismo sempre!

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L’ovovia a Trieste: i primi passi di una grande opera e il fronte dei boschi che si ribella

Vogliamo dare il nostro contributo sugli avvenimenti degli ultimi giorni intorno alla questione della cabinovia metropolitana di Trieste, progetto finanziato con i fondi del PNRR per la mobilità sostenibile che intende costruire un impianto a fune che colleghi la zona del Porto Vecchio in prossimità del centro città con l’altopiano del Carso in zona Opicina. Un’opera che, contrariamente al suo manto “green” costruito sulla retorica della sostenibilità e dell’innovazione, andrà ad impattare fortemente il territorio che attraversa e che, da tempo, vede una forte e variegata opposizione popolare. Le nostre riflessioni sono un punto di vista, una prospettiva tra le tante nel fronte dell’opposizione, che speriamo possano arricchire il dibattito e la mobilitazione in corso.


Ovovia: grande opera dannosa, inutile e costosa

Intorno al progetto dell’Ovovia aleggiano in città sentimenti ambigui, come se alla fine l’assurdità di questa opera inutile e dannosa bastasse di per sé a fermarne la realizzazione. Non è così. Le grandi opere – a maggior ragione quelle finanziate dal PNRR – hanno una funzione strategica, in termini generali sono ripristino delle catene di valore nel capitalismo in crisi. In soldoni, sono grossi affari di progettazione e costruzione (il finanziamento iniziale PNRR di 48 milioni è lievitato fino ad arrivare ad oltre 63 milioni, raggiunti con finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti e con fondi comunali) nella congiunzione tra pubblico e privato (nel nostro caso amministrazione comunale, governo, Unione Europea e la cordata dell’azienda Leitner) e poi, se non verrà fermato, anche di gestione dell’infrastruttura.

L’ecomostro sulla carta.
Come scrivono in altri luoghi, ma in situazioni per certi versi assimilabili, in fondo non è neppure necessario che l’opera si realizzi (anche se crediamo che, per come si stanno mettendo le cose, il rischio è reale, attuale e ormai pienamente dispiegato). “Ciò che appare evidente è invece come il “dispositivo ponte” [oppure “cabinovia”, o qualsiasi altra grande opera] serva a legittimare l’impianto ideologico sviluppista, una macchina di consenso e spesa intorno a qualcosa che probabilmente non esisterà mai. Un vero e proprio metodo, basato sulla “non fattibilità” di opere pubbliche e infrastrutture, in cui lungaggini burocratiche, dibattito politico drogato e permanere di grandi interessi che giustificano la necessità di apertura di cantieri diventano elementi funzionali a un processo che mira in realtà all’indirizzamento dei flussi finanziari, all’orientamento del consenso, alla gestione del territorio”.
Il punto, dunque, non è nemmeno solo l’opera di per sè, ma il piano complessivo di riorganizzazione di una fetta intera di città che, dall’enorme speculazione e riprogettazione di Porto Vecchio, passa per l’area di Barcola e risale sull’altopiano. La cabinovia è in questo senso un’infrastruttura strategica. Ecco cosa va fermato: non (solo) il progetto di una cabinovia, ma il processo complessivo di devastazione del territorio e accumulazione economica – non equamente distribuita – che si porta dietro.
In questa cornice, che alle volte sfugge per i suoi contorni così estesi e sfumati, abbiamo visto negli ultimi giorni muoversi le prime pedine sulla scacchiera. Sono iniziati i primi interventi propedeutici alla definizione del progetto: dopo i sopralluoghi della scorsa primavera ai fini degli espropri dei terreni, i rilievi sul territorio (come gli scavi effettuati in Via Pertsch a giugno e le trivellazioni ad Opicina), i movimenti di tecnici nelle strade limitrofe, ora arrivano le prime trivellazioni impattanti nella zona di strada del Friuli.
Molti hanno fatto notare che “il progetto di fattibilità tecnica ed economica approvato dal Comune nel dicembre 2022 e messo a gara, presenta vistose lacune sotto diversi profili: ambientale, geologico, trasportistico, finanziario, urbanistico”. Nonostante queste lacune, dal momento in cui è stato elaborato un progetto ‘preliminare’ per la realizzazione di una cabinovia metropolitana, si è messo in moto un processo che non si fermerà da solo. 
Le prime trivellazioni

Cosa succede quindi? Accade che sfruttando un’ordinanza sulla manutenzione del verde pubblico il Comune invia in Strada del Friuli una ditta che abbatte un ciliegio, il primo albero dei tanti che è previsto cadano per spianare la strada all’ecomostro. La vigilanza popolare è all’erta: possibile che avvenga un sacrosanto intervento di manutenzione e sfalcio del verde – a detta dei residenti, intervento sostanzialmente non pervenuto negli ultimi 15 anni – con la presenza di ben 5 tecnici comunali a dirigere i lavori, in un punto per giunta toccato dal progetto della cabinovia? Quello che apparentemente sembrava un normale intervento di manutenzione era un piccolo ma significativo moto nell’ingranaggio della megamacchina che si è messa in movimento.

I resti del ciliegio incriminato.
Il gioco viene presto svelato. Dopo il pretestuoso intervento di rimozione di un albero, compaiono i primi divieti di sosta per “esecuzione di sondaggi funzionali al progetto della cabinovia”, riguardanti le aree di Via del Perarolo, Strada del Friuli (nei pressi del civico 118), Via Braidotti e Via del Calcare (intersezione Via Carsia). La ditta esecutrice è la Tecno Geologia Perforazioni di Brescia.
Il lunedì successivo, quindi, una convocazione informale di residenti e solidali si dà appuntamento in zona, per monitorare i movimenti e verificare quanto accade. Una prima “utilità” decisiva della mobilitazione è questa: il presidio e il controllo popolare permette di leggere e interpretare i primi passi della grande opera, contro l’opacità con cui si muovono istituzioni, autorità e imprese coinvolte. Non basta, insomma, affermare con sicurezza che il progetto è “preliminare”, che ci sono pareri contrari, che i ricorsi al TAR sono ancora pendenti. Come dimostrano centinaia di casi in altri luoghi e altre situazioni, progetti di questo tipo si muovono come macchine schiacciasassi sul territorio, strisciando di volta in volta tra ostacoli burocratici ed iter autorizzativi sullo slancio del loro avvio e dell’inerzia che li tiene in moto. Il business è la priorità.
Il meccanismo va inceppato sul piano pratico. Il lunedì ci pensa un nubifragio, che si abbatte su Trieste e sulle zone interessate dai primi sondaggi, mostrandone la fragilità idrogeologica: smottamenti, alberi abbattuti e allagamenti sono l’espressione feroce del fronte della natura, che dobbiamo saper ascoltare. 
È sorda invece la macchina. Il giorno successivo, arriva la trivella in Strada del Friuli. Viene parcheggiata a bordo strada, qualche decina di metri sotto al punto boschivo dove dovrebbe sorgere il pilone W6, insieme ad una cisterna con l’acqua di raffreddamento per la perforazione (di metri e metri) prevista dal carotaggio. Iniziano quindi i primi lavori.
Per tutta la giornata la presenza di un presidio spontaneo segue i lavori, interroga gli operai coinvolti, mette in discussione la legittimità dell’intervento, mostra il dissenso verso l’opera. È chiaro a tutti – a chi presidia, anche sotto la pioggia; ai tanti, di passaggio, che a centinaia mostrano solidarietà – che quei sondaggi non metteranno mai in discussione la realizzazione della cabinovia metropolitana del PNRR, perché sono appunto “funzionali” al suo compimento.
La mobilitazione: il fronte dei boschi, il presidio popolare, il sabotaggio
Il fronte dei boschi non resta silente, avanza, e proprio accanto al ciliegio, la prima vittima del cemento che avanza, un tubo che abbevera la macchina perforatrice ne rimane tranciato. È violenza, questa? Vedendo la trivella che perfora il terreno, l’arroganza comunale, l’impatto devastante della grande opera, sembra più che altro un atto di resistenza legittima, un piccolo granello (si parla di un tubo dell’acqua tipo quello che avete in giardino) per inceppare appena un po’ il processo. È anche un modo per darsi tempo, rallentare e aprire spazi di discussione di fronte all’opera che avanza schiacciando tutto quello che incontra.
La trivella di Salò.

I giornali danno subito risalto alla notizia: il sabotaggio. Contrariamente al can can mediatico, agli scettici e ai politici, ci sembra del tutto superfluo interrogarsi sulla mano che ha compiuto il gesto. Un sabotaggio, come un blocco popolare, è una risposta possibile, e in alcuni casi necessaria, alla violenza istituzionale, alla devastazione del territorio, ai progetti del capitale pubblico-privato. Non si tratta nemmeno di dividere il fronte che si oppone all’opera: ognuno e ognuna si muove con i mezzi che ha disposizione, perché la partita non si gioca nel teatrino della politica e delle legittime posizioni di interesse, ma sul territorio che si abita, in carne ed ossa, senza mediazione. Se lo mettano in testa i politicanti che dal loro salotto fanno la morale, nella speranza di capitalizzare qualche consenso contro il doge demente (sì, parliamo proprio del sindaco alla prese in questi giorni con il complotto per indebolire il governo della sua amica Meloni). Qui parlano e agiscono le persone che vivono sul campo, che lo attraversano ogni giorno per andare a lavorare, che lo difendono e lo curano, che lo custodiscono. Giocano un’altra partita quelli che accumulano e valorizzano capitale – che sia economico, di potere, di consenso politico – che di quel territorio si fa beffe. Semplicemente una risorsa da sfruttare in un modo o nell’altro, per lorsignori. Per noi è altro: è vita, comunità, territorio liberato. In questi giorni, anche semplicemente un riparo fresco dalle torride giornate estive, perché il bosco a differenza del cemento mantiene un ambiente vivibile.

Crediamo che questo sia un buon esempio del modo in cui vada affrontata una lotta come quella contro l’ovovia: attraverso tutte quelle modalità che chi si sente aggredita dal progetto ha tempo e voglia di portare avanti. In quest’ottica apprezziamo molto il lavoro informativo e la lotta legale del Comitato No Ovovia. Ma visti i giochetti di imprenditori e Comune, che con una semplice deroga superano vincoli come quello di Natura 2000, non sembra sensato pensare che i procedimenti della giustizia possano da soli arrestare il progetto in così breve tempo.
La storia insegna: progetti faraonici come quello dell’ovovia, in cui si concentrano molti degli elementi del capitalismo odierno (trasferimento massiccio di soldi pubblici nel privato, sfruttamento di ogni pezzo di terra per il profitto di poche aziende, sfacciato greenwashing, autoritarismo decisionale travestito di processo democratico), vanno combattuti, per la loro complessità, da ogni fronte possibile. Un agire verso una stessa direzione che necessita del rispetto reciproco di tutte le modalità di lotta.
Un’altra cosa che vale la pena ricordare, in questi tempi di smobilitazione strutturale, è che agire dal basso serve a qualcosa. Non è solo un modo di esprimersi, di vivere, ma anche un modo di cambiare veramente ciò che ci sta attorno. Pensiamo alla lotta No TAV, che da più di venticinque anni riesce a difendere il proprio territorio mettendo sotto scacco uno dei progetti più distruttivi e costosi della storia italiana recente. Ma pensiamo anche alle lotte locali, quelle che spesso passano quasi inosservate, ma che hanno senz’altro effetti nella gestione del nostro territorio.
Il presidio spontaneo si convoca e si riconvoca in continuazione, il martedì e il mercoledì successivi, di volta in volta scegliendo come agire. Con la semplice presenza, disturbando i lavori, denunciando le irregolarità, facendo muro, chiacchierando con gli operai, alzandogli la voce (siamo umani, non carte bollate). La risposta istituzionale è chiara: già dal martedì aumenta la presenza delle forze dell’ordine a sorveglianza dei lavori, a difesa degli interessi di una manciata di tecnici, politici e capitali contro la volontà popolare. La trivella viene transennata, nasce il primo fortino dell’opera, la sua piccola prima trincea sul campo. Dura poco, perché – contro il tentativo iniziale di muoversi in sordina e il successivo, a cose fatte, di farne una questione di ordine pubblico – il fronte dei boschi e dei resistenti la spunta.
Dopo tre giorni di lavori a scatti, gli operai comunicano che non ci sono le condizioni per proseguire i sondaggi. Hanno bucato per 7/8 metri il terreno, senza arrivare ai 10 che si erano prefissati, ma preferiscono caricare macchinari e bagagli e ripartire. I giornali ne parlano? In alcun modo, tacciono. Perché ormai è chiaro che la notiziabilità di questo grande affare passa per i faraonici annunci di un grande cabinovia metropolitana per la mobilità (dei turisti, in realtà, ma non si può dire apertamente perché altrimenti cadrebbe la ragione del finanziamento del PNRR), sogno di un capitalismo delle grandi opere che fa finta che la natura non esista se non come risorsa da spremere. Molto meno interessa ai media la contestazione reale, quella che avviene fuori dai social e che ha effetti materiali.
Ecco un secondo punto decisivo: dopo la fase degli annunci, delle carte, dei progetti, ora la partita si cala nella realtà e da lì deve venire la risposta.
Le trivelle ripartono, la mobilitazione continua
Le trivelle sono ripartite, ma il fronte dei boschi continua a vivere, a sorvegliare il Bovedo, le strade lì attorno, la casa comune che abita, contro lo sfruttamento e l’abuso di chi vorrebbe governarlo, sfruttarlo e valorizzarlo con la forza.
Ogni vittoria, anche piccola, va festeggiata insieme.
“Invitiamo tutte e tutti a tenere gli occhi aperti, a partecipare in questa lotta attivamente. Siamo responsabili per gli spazi che abitiamo.”

Con queste parole, un gruppo di cittadine, residenti e solidali della zona direttamente colpita dal mega progetto rilanciava la mobilitazione dopo la prima occasione in cui ci si è opposte fisicamente alla costruzione dell’ovovia. Uno “stare in piedi” – in linea con le tradizioni della disobbedienza civile – che ha rallentato i lavori di trivellamento propedeutici all’impiantamento dei famigerati piloni. Una piccolissima – ma comunque rilevante – vittoria, complici le forte pioggie e pure i piccoli sabotaggi che qualcuno ha portato a termine.

Teniamone conto: là – tra i boschi, le strade e i sentieri – c’è un mondo intero che si ribella.

 

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Le meganavi o farsi il bagno vestite: cosa inquina di più?

Una polemica ferragostana che ha riempito le pagine dei giornaletti locali tra i bollini neri dell’autostrada, qualche femminicidio e le raccomandazioni per sopravvivere all’ennesima ondata di calore, fino a bucare le pagine delle grandi testate democratiche che devono rifarsi una verginità a sinistra. La polemica che ha permesso ai giovani precari giornalisti di fare la loro inchiestina intervistando improbabili opinionisti da spiaggia, mentre i colleghi veterani si occupavano di creare il siparietto ai sempre più inascoltabili politicanti.

La notizia in sé è un gravissimo episodio di razzismo che ha avuto luogo al Pedocin, unica spiaggia separatista d’Italia: alcune donne sono state insultate perché stavano facendo il bagno vestite in mare. Tra le motivazioni principali, urlate con convinzione dalle impavide paladine della cultura italica: il bagno vestite non è igienico. Dopo aver pisciato per anni in quei pochi metri cubi d’acqua vicini al principale porto petrolifero del mediterraneo, all’interno di quel golfo che da un paio d’anni accoglie centinaia di crociere, che inquinano l’aria e le acque quanto migliaia di macchine.

Smontata questa prima ridicola ragione, le rughe bruciate dal sole si irrigidiscono. Le voci si fanno più acute, diventando ancora più intolleranti, razziste e banali: “se sono qua, devono adattarsi alla nostra cultura” aggiungendo, a sostegno di ciò, che “l’ha detto anche il sindaco”. Sì, intendono quel personaggio che rivendica il diritto dei penemuniti di commentare i culi delle femmine. Quel sindaco che dieci anni or sono si è lanciato in giacca e cravatta a fianco del molo audace; un sindaco che fomenta l’intolleranza e rigetta chi ha più bisogno, che al momento lascia in stato di abbandondo più di quattrocento persone dentro il Silos; per cui l’unica cultura è quella del cemento, delle grandi opere, sempre inutili e impattanti, e del profitto di pochi “botegheri”; quello che, con la sua amministrazione, sta svendendo la città a capitali stranieri – solo se facoltosi, gli stranieri sono bene accolti in questa città – per creare strutture turistiche di lusso; che sta rendendo di mese in mese, di anno in anno, la nostra città una vetrina commerciale, invivibile per chi la abita tra la precarizzazione galoppante e il costo della vita schizzato alle stelle. Vetrina che presto diventerà una serra, a causa della cementificazione e del disboscamento del verde pubblico.

Chissà se alle signore del Pedocin verrà qualche dubbio sentendo sfrigolare la loro carne sotto i 40 gradi di questa torrida fine di agosto. Probabilmente daranno la colpa alle donne musulmane che, oltre alla loro cultura, hanno portato qua pure il caldo.    L’ultima, più profonda e intellettuale tra le motivazioni per cacciare donne – presumibilmente di religione musulmana – da una spiaggia ritenuta “spazio sicuro”, motivazione ripresa anche dall’assessore regionale Scoccimarro (a cui scappa “per sbaglio” il braccio teso quando si ritrova “casualmente” tra camerati): l’intima preoccupazione che queste donne non siano libere di vestirsi come vogliono, arrivando a contraddire in modo ipocrita la prima asserzione per cui al Pedocin non si può fare il bagno vestite.

L’unica azione empatica e solidale è stata invece organizzata e messa in campo da un gruppo di donne che hanno deciso di dare una risposta a questo attacco razzista. Una risposta semplice e istintiva: un grande bagno collettivo, liberatorio e determinato,tutte vestite ognuna a modo suo. Insomma, la riappropriazione di uno spazio teatro di pratiche fasciste. La speranza è che l’azione sia riuscita a comunicare la violenta sterilità della polemica su come vestire, e che le donne vittime di aggressione possano tornare a testa alta in quella spiaggia, vestite come pare a loro.  Durante questa azione non è mancata l’invasione machista di uno spazio che doveva essere sicuro, di sole donne: giornalisti, poliziotti, e fascisti con tatuaggi innominabili, crocifissi e proiettili al collo sono entrati facendo ciò che pareva loro, malgrado le proteste di tante.  Per le vittime di ogni razzismo, della violenza delle frontiere interne ed esterne, dello sfruttamento e della repressione, del fascismo e del razzismo che dilagano nella quotidianità delle città in cui viviamo: imponiamoci di rispondere sempre, colpo su colpo, senza mezzi termini e senza compromessi.