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Aggiornamenti dal CPR di Gradisca

Sappiamo quali siano le condizioni del CPR di Gradisca, di ogni lager di quel tipo. La tortura e la segregazione sono il loro ordine di funzionamento. Lo vediamo quando cerchiamo di portare qualche pacco ai reclusi all’interno: forze di polizia di ogni tipo, in costante tenuta antisommossa, a governare la macchina dell’internamento e della deportazione con il manganello.

Sappiamo anche quanto i reclusi all’interno siano combattivi e resistenti: le rivolte sono continue, i tentativi di evasione si susseguono. Viva la libertà!

Scriviamo tutto questo perché sappiamo che in questi minuti due persone, in un tentativo di evasione, sono salite sul tetto, braccate dalle guardie sotto. Minacciano di gettarsi nel vuoto, a questo sono costretti. Ci sono proteste in corso.

Mandiamo il nostro caloroso abbraccio a tutti i reclusi, a tutti i resistenti. E che tutti sappiano, così almeno da evitare i loro maledetti insabbiamenti, il silenzio in cui vogliono confinare le vite tra quelle mura!

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Dalla parte di chi prova ad abbattere quelle mura

Qualche giorno dopo il weekend di mobilitazione contro i CPR e le frontiere, ci teniamo a condividere alcune considerazioni su questi due giorni.

Chi ha partecipato e portato i generi di prima necessità ai reclusi non lo ha fatto per spirito di carità, ma perché ha intimamente capito che in quel luogo di tortura i pacchi che abbiamo consegnato possono trasformarsi in mezzo per allargare le maglie di un sistema che attraverso privazioni e violenza si traduce in tortura.

Il cibo che abbiamo messo dentro a quei pacchi potrà forse aiutare qualcuno a rifiutarsi di mangiare il cibo fornito all’interno del CPR da Ekene, la cooperativa che lo gestisce. Dentro quelle razioni – a Gradisca come negli altri CPR – vengono infatti nascosti psicofarmaci volti ad ammansire i prigionieri (o ospiti, come li chiamano loro). Da qui il significato politico dei generi alimentari, non abbiamo mai voluto rendere più vivibile quel centro di tortura amministrativa.

Un grande grazie anche alle compagne che sono venute a presentarci I CPR si chiudono col fuoco. L’opuscolo (disponibile qui) presenta le testimonianze delle persone rinchiuse e delle rivolte che quest’inverno hanno bruciato molte sezioni del CPR di corso Brunelleschi fino a provocarne la chiusura.

Noi siamo convinte: le affinità politiche più strette si legano attraverso la condivisione delle pratiche di lotta, e per questo ci teniamo a rimandare alla prossima chiamata nazionale, il Passamontagna del 4-5-6 Agosto. Invitiamo chi può a essere presente: la pretesa sovranità degli Stati sui confini nazionali si spezza attraversandoli.

Segnaliamo poi una vicenda estremamente grave, a dimostrazione che la mobilitazione e la solidarietà sono sempre più necessarie per rompere quello stato di invisibilità e isolamento in cui i CPR sono confinati. Nei contatti avvenuti in questi giorni con l’interno abbiamo infatti scoperto che una persona tunisina è in sciopero della fame da tre settimane e negli ultimi giorni è stato portata in ospedale a seguito di atti di autolesionismo. Ieri sera è stato riportato al CPR, ma in una cella e in un’area distanti dai compagni che, in solidarietà, avevano iniziato a rifiutare il cibo. È la seconda volta che intraprende il digiuno nell’ultimo mese, in segno di protesta verso la detenzione arbitraria a cui è sottoposto. Ha avuto problemi politici in Tunisia a seguito delle rivolte della primavera araba, ma nonostante questo la sua richiesta asilo è stata respinta come “pretestuosa”.

Ma le voci dai CPR, per chi vuole ascoltare, parlano di abusi costanti e di persone che nonostante tutto non si piegano: le proteste e le rivolte sono continue, anche se rimangono nel silenzio colpevole di quelle quattro mura. Sta anche a noi farle risuonare, portando solidarietà e appoggio.

Ringraziamo anche per questo le forze dell’ordine, la Prefettura di Gorizia e la cooperativa Ekene che, gelosi di mantenere le persone rinchiuse, sedate e isolate, hanno negato con la forza al presidio di spostarsi sotto le mura del CPR e, sempre con la forza, hanno impedito ai reclusi di far uscire le loro voci da quelle stesse mura.

Come ribadito più volte durante i dibattiti, le persone rinchiuse sono pienamente consapevoli dell’ingiustizia e della violenza che sono costrette a subire all’interno del CPR, tanto da arrivare al punto di mettere a repentaglio il proprio futuro e le proprie stesse vite per far cadere quel muro. C’è chi ha rischiato il rimpatrio per far uscire la testimonianza di un omicidio, c’è chi ha rischiato la pelle per distruggere le mura, il ringraziamento più grande va a loro. Il bisogno profondo di libertà è più potente dell’oppressione quotidiana e soffocante, e il minimo che possiamo fare da fuori è sostenere e amplificare queste voci e questa lotta che riguarda tutti e tutte.

Solidali con chi subisce la violenza dei CPR e delle frontiere e dalla parte di chi prova ad abbattere queste mura.

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Alfredo Cospito e la vittoria

“Io sottoscritto Alfredo Cospito comunico di voler sospendere lo sciopero della fame”. Con questo schietto messaggio, scritto su un modello prestampato apposito per le comunicazioni fra detenuti e magistrati, il militante anarchico comunicava mercoledì scorso al Tribunale di Sorveglianza di Milano la sua decisione di tornare a mangiare. Dall’Ospedale San Paolo di Milano, Cospito finiva così 181 giorni in cui ha messo a vero rischio il proprio corpo — unico strumento a sua disposizione nell’isolamento in cui è costretto a vivere — per la lotta contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

Il giorno precedente, la Corte Costituzionale dichiarava l’incostituzionalità della norma applicata alla sua condanna, che impediva il riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti relative ai fatti contestati (due pacchi bomba a basso potenziale messi davanti alla caserma allievi carabinieri di Fossano che non hanno determinato morti, feriti o danni gravi), sulla cosiddetta recidiva reiterata. Finora, questa norma stabiliva l’automatica applicazione dell’ergastolo ostativo, che impediva a sua volta il riconoscimento dei benefici penitenziari — semilibertà, liberazione condizionale, permessi premio, ecc. — a* detenut* che non “collaborano con la giustizia”.

In altre parole, la Consulta ha fatto cadere la regola che ha consentito ai giudici di murare a vita Alfredo in carcere (e, con lui, chiunque altr* condannat* per gli stessi reati), senza consentire un eventuale sconto di pena basato sulla valutazione degli effetti concreti dei fatti attribuitigli.

Alfredo continuerà per ora ad essere rinchiuso nel 41bis, ma la scintilla della sua lotta ha prodotto questo significativo risultato, che porterà non solo alla revisione del suo processo, ma anche ad evitare che altr* possano subire la stessa sua sorte. Un risultato che, come ha detto qualcuna, “non è certamente una ‘vittoria’ dello stato di diritto o un ‘ritorno’ ai princìpi della costituzione, bensì un risultato conseguito dallo sciopero della fame e dal movimento di solidarietà internazionale sviluppatosi nell’arco degli ultimi 11 mesi”.

La vittoria non è un assoluto, ma una tappa che ogni tanto si riesce a percorrere lungo la strada. E oggi, nonostante tutto l’orrore che circonda questa vicenda, non possiamo non sentire un briciolo di gioia per questo obiettivo raggiunto.
Gioia perché la lotta paga, anche quando logora chi la porta avanti, come Alfredo, che forse non recupererà mai la sua capacità deambulatoria, causa i danni che la fame ha inflitto al suo sistema nervoso periferico.
La lotta paga e, talvolta, come oggi, riesce a superare la forza di una repressione di Stato sempre più pervasiva, di cui le condanne a rimanere “sepolti in vita” come certi apparati dello stato hanno provato a fare con Alfredo sono solo la punta della piramide. Nei livelli sottostanti si trovano il carcere “normale”, le infinite multe (sempre più care per questioni sempre più banali), i dispositivi legali “preventivi” (fogli di via, daspo, sorveglianza speciale), gli sgomberi degli spazi liberati, i divieti di manifestare, la censura nelle pubblicazioni, la militarizzazione dello spazio pubblico.
Alfredo Cospito, come tante altre prima, ci ha insegnato che tutto questo non rende impossibile lottare per ciò in cui si crede, che è ancora possibile scatenare ondate di solidarietà in modo trasversale, che l‘autoritarismo dello Stato, con tutta la sua potenza, non è onnipotente.
Quindi ringraziamo profondamente Alfredo, e tutte e tutti coloro che ogni giorno, anche lontano dai riflettori, si spendono, senza perdere la gioia di vivere, per generare mondi migliori dentro questo mondo di merda. Grazie.
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[AUDIO] Di complotti, reincanto e lotte // Conversazioni con Wu Ming 1 + Reading/Concerto Ufo 78

Con un leggero ritardo, condividiamo l’audio dell’incontro che abbiamo organizzato lo scorso 3 marzo con Wu Ming 1, per chi non è riuscita ad entrare in sala (eravate davvero tante!) e per chi non è riuscita a venire.

Oltre al bellissimo reading/concerto di due capitoli di Ufo 78 — sui bassi e gli effetti di Luca Demicheli —, l’audio include la conversazione che abbiamo avuto con Wu Ming 1 dove, partendo dall’ultimo libro del collettivo bolognese e dalla Q di Qomplotto, traiamo spunti e riflessioni su diversi temi.

Un contributo per arricchire molte delle discussioni che preoccupano chi agisce politicamente dal basso e un tentativo di cercare nuovi modi di interagire con le rivolte presenti e future, lontano da dogmatismi e settarismi.
Buon ascolto!

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Riflessioni da Sainte-Soline

I cosiddetti “megabacini” (megabassines) sono giganteschi laghi artificiali — plastificati e che quindi isolano l’acqua immagazzinata dall’habitat circostante — moltiplicatisi negli ultimi anni in Francia per rispondere ai bisogni dell’industria agroalimentare e presentati dai poteri pubblici come una soluzione per adattarsi ai cambiamenti climatici. Con una dimensione fra gli 8 e i 18 ettari, vengono riempiti durante l’inverno per permettere l’innaffiamento dei campi durante i periodi di maggiore stress idrico. Il loro riempimento non avviene soltanto raccogliendo l’acqua della pioggia, come spesso vogliono far credere i loro promotori, ma anche pompandone dalle falde acquifere e dai fiumi vicini. Viene così fortemente alterato l’equilibrio idrico dei territori, attraverso il “furto” di acqua da certe terre e generando una perdita netta dovuta all’evaporazione dai megabacini (stimata fra il 20% e il 60%). Per questi motivi, i progetti dei megabacini vengono considerati, da diversi movimenti ecologisti francesi, come una vera e propria “fuga in avanti” per mantenere a ogni costo un modello agroindustriale devastante per i territori e per chi li abita.

La costruzione di uno di questi megabacini ha messo Sainte-Soline, comune del centro-ovest francese di 350 abitanti, al centro delle proteste ecologiste. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo diverse manifestazioni nella zona del cantiere, fino ad arrivare alle giornate del 25 e 26 marzo, dove circa 30.000 persone si sono radunate per mostrare la loro opposizione a questo progetto e a ciò che esso rappresenta.

Una di noi era là, e ha voluto raccontare la propria esperienza e i propri pensieri, che condividiamo di seguito.

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Sainte-Soline è stata una vera e propria battaglia. Ma non è stata soltanto questo: è stato anche un momento di unità e rabbia tra movimento ecologista e militanti provenienti da tutta la Francia e da tutta l’Europa, è stata un momento di profondi dibattiti e riflessioni sull’urgenza di agire, sabotare, lottare per il clima, per l’acqua, per le pensioni, per le nostre vite. Lo scorso 25 marzo, Sainte-Soline è stata lo specchio della potenziale forza delle masse, ed è stata lo specchio di cosa lo stato democratico sia disposto a fare pur di difendere il proprio potere. Sì, perché non era quel bacino in costruzione che quei tremila poliziotti e le sue cento camionette avevano il compito di difendere, ma il potere di uno stato che fa difficoltà a mantenere il controllo sul proprio territorio, sulle proprie strade, e anche sui propri luoghi e dispositivi di potere (ad oggi in Francia non bruciano solo i bottini dell’immondizia, ma anche alcuni municipi e camionette della polizia).

Dopo il campeggio, le assemblee e i blocchi di strade e di binari che si sono tenuti il venerdì, tre cortei sono partiti il sabato mattina. Uno (rosa) che voleva essere uno spazio sicuro per chiunque, uno (blu) mirato ad attuare dei sabotaggi prima di attaccare il bacino e l’altro (giallo) che puntava direttamente al bacino.

All’arrivo in prossimità del bacino, davanti allo schieramento militare che si stagliava davanti a noi, l’agitazione si sentiva palpabile e si esorcizzava a battiti di mani, cantando a piena voce all’unisono, al suono di tamburi, trombe, fisarmoniche e chissà quale altro strumento che qualche mattə aveva portato con sé. La forza della rabbia collettiva riecheggiava ovunque e permetteva di avanzare — tenenendosi per mano per tirarsi fuori vicendevolmente dal fango — un gruppo compatto, sospinto da ideali e non dagli ordini di un qualsiasi capo-reparto che ne decidesse le sorti.

I lacrimogeni hanno iniziato a volare ovunque fin da subito, così come gli idranti e le granate. E due parole sulle granate vanno spese, perché per chi, come me, in Francia non ha mai partecipato ad una piazza, sono state qualcosa di raggelante. I poliziotti francesi dispongono di due tipi di granate: quelle sonore (flashbang o stun grenade), che esplodono stordendo, e quelle dette “di désencerclement” (letteralmente “di disaccerchiamento”), vere e proprie granate a frammentazione che al momento dell’esplosione lanciano pezzi di caucciù tutto attorno a sé, infilzando braccia, gambe, occhi o qualsiasi cosa becchino a chi ci stia attorno. L’utilizzo di queste armi ha già causato morti e mutilazioni in Francia e da quanto ci dicevano sono state utilizzate in maniera sempre più normalizzata dal dilagare del movimento dei gilets jaunes in poi.

Arrivati al bacino, mentre il corteo giallo avanzava e premeva contro il cordone della polizia, il corteo blu è riuscito nell’intento di sabotaggio, distaccando un tubo enorme che poi è stato utilizzato come ariete (ops!). Da quel momento è partito l’assalto collettivo al cantiere e la vera e propria guerriglia. Da una parte, c’era una pioggia costante di lacrimogeni e granate, sia vicino che a distanza (anche sui feriti), sparati in aria e ad altezza uomo, mentre dall’altra si rispondeva con nugoli di pietre  e non solo, finendo con camionette e poliziotti in fiamme.

La prima linea del cantiere è venuta giù, ma sfondare era pressocché impossibile per la nube costante di lacrimogeni, che impediva a chiunque non avesse una maschera anti-gas di avvicinarsi. L’avanzare e retrocedere è proseguito per un bel po’, finché membri della Brav-M (Brigate motorizzate di repressione di azioni violente) non sono arrivati con i quad a sparare lacrimogeni e granate da dietro, causando un certo allentamento della pressione da parte dei manifestanti. In quel momento si è deciso di fermarsi per lasciare spazio al soccorso dei feriti. Si è valutato poi che la quantità di feriti era troppo grande e i medici troppo pochi quindi, nonostante gran parte delle persone volesse riattaccare il cantiere, si è deciso di ritornare indietro, andando a sabotare altre tubature e pompe un po’ più distanti dal bacino (non senza qualche altro momento di lanci di pietre e materiale pirotecnico, espressione delle varie anime della piazza, uno spontaneismo che significa anche prendere decisioni e stare in piazza in maniere diverse).

Nel frattempo, nelle retrovie alcune compagne e compagni avevano costruito una serra per un agricoltore della zona, a dimostrazione che le nostre forze erano così distruttive quanto propositive. E la parte propositiva è continuata nella serata in cui il vicino comune di Melle (3600 abitanti) è diventato casa per migliaia di militanti che hanno dormito nei parcheggi e nei prati del paese e hanno animato, danzando, la piazza in cui erano allestiti due mega tendoni e diversi bar, punti ristoro, un punto viola, una zona bagni con vecchiettə h24 lì a pulire e distribuire carta igienica, banchetti di associazioni e gruppi e di diffusione di materiale informativo su qualsiasi tema: dal Rojava al nucleare, dalle pensioni all’antifascismo.

Dal palco, a un certo punto, sono intervenute le organizzatrici. Ci sono state lacrime per i compagni e le compagne in pericolo di vita [ad oggi c’è ancora almeno una persona in coma, ndr], c’è stata la rabbia e il voler comunque rivendicare ogni passo fatto assieme e il non fermarsi della lotta. È stato anche espresso il desiderio di far arrivare a tutte le compagne presenti, provenienti da tutta la Francia e l’Europa, l’idea che ciò che è stato fatto a Sainte-Soline può riprodursi e moltiplicarsi in ogni angolo: le manifestazioni, i sabotaggi, le assemblee, la creazione di materiale informativo, la convergenza delle lotte, tutto.

Il giorno seguente, quel villaggio collettivo improvvisato ha ripreso vita tra caffè, pranzi sociali ad offerta libera e dibattiti. Assemblee di centinaia di persone hanno riempito il teatro, il cinema e varie sale di Melle dove vecchiettə e giovani, contadinə e militanti queer, operaiə, anarchichə, comunistə, sindacalistə e chiunque altro, quasi tuttə copertə di fango, hanno intessuto dibattiti e discussioni su come continuare ad agire sul mondo. All’assemblea a cui abbiamo partecipato noi, una signora anziana ha preso parola e, piangendo, ha chiesto scusa per non aver avuto il coraggio di stare davanti durante il corteo, ringraziando chi per lei l’ha fatto, e ha aggiunto che da persona non violenta non ha potuto che festeggiare quando la prima camionetta ha preso fuoco.

Sono quelle realtà, come in Val Susa, che ti colpiscono, facendoti capire come tante persone, dopo aver vissuto sulla propria pelle la violenza dello stato, aver visto le devastazioni delle proprie terre e della propria casa e le ferite dei compagni e compagne di strada, scelgono che il momento del rispetto per chi decide coscientemente di massacrarti è semplicemente finito.

Il bilancio dei due giorni è stato vario. Il movimento si è preso il suo spazio, ha dato una chiara prova di forza e ha creato momenti di condivisione e dialogo. La copertura mediatica della sua presenza – e anche degli abusi polizieschi – è stata ampissima. Chiunque sia statə lì in quei giorni è tornatə a casa con una forza dentro che probabilmente non sentiva prima, e penso sia anche questo lo scopo di ritrovarsi e camminare assieme: sentire di non essere solə in questa lotta impari contro lo schifo di questa società.

Dall’altra parte, ci sono risvolti negativi: lo stato francese, davanti alla forza del movimento ecologista, così come davanti alla forza del movimento contro la riforma delle pensioni, ha tirato dritto e sembra non farsi scalfire, anzi, risponde con una violenza sempre più inaudita, con buona pace dei diritti umani, leggi, convenzioni, costituzioni e valori democatici. Nel caso di Sainte-Soline impedendo addirittura l’arrivo delle ambulanze per un’ora e trenta, mettendo a serio rischio la vita di almeno due persone, una delle quali intubata sul posto dopo ore di attesa.

Una persona ha perso l’utilizzo di un occhio, altre due sono finite in coma a lottare per la vita in ospedale, e centinaia sono state ferite e/o hanno vissuto vari stati di shock.

La domanda allora sorge spontanea: vale la pena morire o restare mutilatə a vita per lottare contro un bacino idrico? E per un treno ad alta velocità? Per due anni di pensione che tanto non vedremo mai? Per bloccare un G8? Zittire un fascista? Occupare una casa? Forse per una singola di queste cose no, ma per tutto, per tutto sì. Perché se non fossimo dispostə a mettere in gioco le nostre vite e le nostre fedine penali per ogni singola azione, non faremmo più nulla e il vuoto del decoro, l’oppressione del capitale e lo strapotere delle classi dominanti non avrebbero più argini.

Nonostante le contradizioni, non posso proprio pensare che sia stato sbagliato assaltare quel cantiere, così come sabotarne le tubature in mezzo a granate e lacrimogeni che piovevano da ogni dove. Questo modo di agire — che è dilagato in Francia nelle ultime settimane — ha generato rapporti di forze sbilanciati, per una volta, verso il lato di chi lotta dal basso e non di chi reprime. Per quello non vedo alternative alle scelte prese a Saint-Soline, perché legge formale e legge materiale sono due cose ben diverse. Basta guardare anche l’Italia, in cui le leggi scritte sono abbastanza omogenee ovunque, ma poi ogni regione e città ha dinamiche completamente diverse basate, appunto, sui rapporti di forza stabiliti: dalla possibilità di occupare spazi abbandonati all’applicazione della repressione amministrativa, dalle limitazioni delle questure alla libertà di manifestazione alla presenza più o meno invadente delle forze dell’ordine in determinati quartieri.

Se nel momento di massima repressione di una piazza la risposta è un passo indietro per paura, la repressione ha già vinto. Dovremmo invece essere sempre capaci di ingoiarci le lacrime, ragionare sugli errori e rilanciare in maniera sempre più determinata e ancora più efficace.

La forza di questi due giorni a Saint-Soline non è stata solo nelle molotov come non è stata solo nelle assemblee, ma bensì nella sua interezza: dallo sfidare i posti di blocco in entrata e in uscita, autorganizzandosi attraverso un’infoline, alla cura messa nel creare dei momenti di decompressione e sostegno psicologico, all’autogestione degli spazi, all’attenzione verso quei prati su cui nemmeno una sigaretta trovavi a terra (in mezzo a quattromila bussolotti di lacrimogeni e granate!), alle bande che

suonavano in mezzo alle cariche così come in serata, alle mediche che correvano da tutte le parti, cadendo nel fango in continuazione pur di prestare soccorso.

In una delle assemblee, qualcuna ha detto che non ha senso chiedersi che mondo vorremmo domani perché lo stavamo costruendo in quel momento nell’azione: con il mutualismo, con la solidarietà, con il sostegno alle produzioni dal basso, con l’autotutela collettiva, con la forza che ci davamo vicendevolmente. Penso stia tutto lì. A Sainte-Soline, come in altre situazioni del genere, quel mondo diverso che di solito riusciamo a creare in piccoli gruppetti e piccoli spazi, è stato davvero qualcosa di largo, partecipato e tangibile, ed è la cosa più forte con cui ritorno nella ridente Trst.

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[03/03] Di complotti, reincanto e lotte // Conversazioni con Wu Ming 1 + Reading/Concerto Ufo 78

VENERDÌ 3 MARZO / 18.30
CASA DEL POPOLO DI SOTTOLONGERA (via Masaccio 24)

“Superati anche i postumi, avremmo raccolto da terra i frantumi della nostra psiche e ci saremmo guardati intorno, in semiconscia attesa della pandemia prossima ventura, di un’altra emergenza, di ubriacarci ancora di paura”.

Scriveva così Wu Ming 1 ne La Q di Qomplotto nell’ormai lontano 2020, immaginandoci appunto ora a fare i conti con quanto è successo, o quanto accade ancora.

I cospirazionismi e le narrazioni tossiche dominanti oggi sono sintomi, fra altre cose, di un malcontento sociale che serpeggia sempre più forte, della percezione sempre più diffusa che la cornice capitalistica sta rendendo la vita su questa terra invivibile. Eppure vere istanze anticapitaliste stentano a nascere nell’odierno clima di guerra, un contesto per certi versi simile a quello dell’ultimo libro del collettivo Wu Ming, UFO78, dove in seguito al rapimento Moro il Paese è caduto in preda alla paranoia e alla militarizzazione.

Come ritrovare, in questo contesto, la capacità di un reincanto creativo? Come recuperare le forze collettive necessarie per rimettere in discussione l’esistente, per contrastare la multicrisi (ecologica, sanitaria, sociale) in cui siamo immersi? Quello di cui abbiamo pochi dubbi è che le rivolte che verranno non potranno che essere spurie, complesse, poco riconoscibili, senza quei tratti distintivi di “patrimonio di classe” a cui saremmo abituati. Bisogna rimboccarsi le maniche, sporcarsi di nuovo le mani ed essere pronti con nuove armi.

Ne discuteremo con Wu Ming 1, a partire dagli ultimi libri scritti da lui stesso e dal collettivo del quale fa parte.

Reading/Concerto Ufo 78 a cura di Wu Ming 1 (voce) e Luca Demicheli (basso elettrico ed effetti).

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[13/12] Martedì Burjana // Proiezione “Rent Strike Bolognina”

MARTEDÌ 13 DICEMBRE // ORE 19:30

Il prossimo Martedì Burjana inizieremo la serata alle 19:30 con la proiezione del documentario “RentStrike Bolognina” (2021), che racconta il più esteso sciopero dell’affitto organizzato in Italia durante il primo lockdown: in una Bologna deserta, tredici appartamenti di un edificio popolare si uniscono contro l’avidità dell’unica padrona, per difendere il diritto all’abitare e opporsi a chi specula sui bisogni primari.
Come al solito saranno aperte la ciclofficina “Scontrosa Graziella” e il nostro baretto popolare. Dopo la proiezione proseguiremo con musica e chiacchiere in compagnia.
Nello spazio sarà esposta in anteprima la mostra sul 41BIS, in preparazione al presidio di giovedì 15.
A presto!
[No fasci, No machi, No sbirri]
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[02/12] Storie delle schiavitù // Strategie per la rivolta (1º incontro)

VENERDÌ 2 DICEMBRE // ORE 18.30
Vi invitiamo al primo di una serie di incontri attorno al binomio schiavitù/rivolta, all’apparenza scontato ma che in realtà nasconde diverse sorprese.
L’idea sarebbe di compiere, in maniera collettiva e riappropriandoci dal basso di un certo modo di fare cultura, una “storia della schiavitù” che non sia semplicemente una carrellata più o meno erudita di fatti storici o filosofici, ma una storia delle nostre attuali schiavitù (da quelle più brutali e selvagge dei riders, degli stagionali e dei senegalesi che fanno pomodori in Puglia, a quelle solo all’apparenza più “dolci” di impiegati e/o partite iva). Anche nell’antica Roma alcuni schiavi avevano a propria volta degli schiavi, ma questo non li rendeva meno tali.
Allo stesso modo, nell’analizzare le strategie impiegate dalle rivolte, politiche o individuali, non si tratterà tanto di cullarsi nel bel ricordo dei tanti che hanno avuto il coraggio di alzare la testa (e sono finiti male), ma al contrario di ragionare “strategicamente” su cosa fa fallire le rivolte, su cosa le causa, e su cosa invece permette a quelle vincenti (e che a quel punto chiamiamo “rivoluzioni”) di imporsi.
Aprirà il dibattito Andrea Muni di Charta Sporca con un intervento su “cosa significa fare una storia della schiavitù”, “aspetti conservatori delle rivolte, e differenza tra rivolte e guerre civili”, e “gli schiavi diventati padroni” della Genealogia di Nietzsche”. Seguirà discussione/dibattito volto anche a cominciare a immaginare collettivamente le puntate di un futuro seminario che potrebbe cominciare verso metà inverno.
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Alcuni link di approfondimento: