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Rivolta al Coroneo!

Da settimane, mesi, anni si parla delle condizioni sempre più invivibili del Carcere del Coroneo a Trieste. Pochi giorni fa scattava la “notizia” del sovraffollamento: 257 persone recluse per una capienza di 150.

È in corso dalle 19 di oggi una rivolta, ma le informazioni sono poche. La zona di fronte è blindata, continua il viavai di ambulanze e mezzi di sbirri e militari.

Dentro, da quello che sappiamo, la situazione è insopportabile: caldo infernale, cimici, mancanza di tutto.

A quanto pare gli antisommossa sono entrati e si sono scontrati con i reclusi.

Libertà per tutte e tutti!


Aggiornamenti [22:36]
Dopo momenti di tensione, stanno portando fuori delle persone in barella e altre nel furgone della celere. Da dentro si sentivano urla. Da fuori qualcun ha provato a far sentire un po’ di solidarietà.


Aggiornamenti [12 luglio]

Una rivolta, un morto: cos’altro c’e da aspettare?

Mentre emergono da fonti giornalistiche indiscrezioni sulle cause scatenanti della rivolta di ieri – probabilmente dei provvedimenti disciplinari immotivati e maltrattamenti operati anche dallo stesso direttore del carcere nei confronti di un detenuto molto giovane -, ci giunge un’altra, devastante notizia: un detenuto sarebbe stato trovato deceduto nella giornata di oggi.

Non ne sappiamo i motivi, ma ne conosciamo i responsabili, come delle intollerabili condizioni di detenzione del carcere del Coroneo.

Restiamo vigili e reagiamo solidali al fianco dei prigionieri di quella galera infame. Se le loro richieste non possono essere soddisfatte immediatamente – e pare non ci sia né la possibilità e ancora meno la volontà – una sola è la soluzione: la liberazione di tutte le persone incarcerate là dentro.

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Rivolta in corso nel CPR di Gradisca!

In questi minuti una colonna di fumo si alza dall’area blu del lager nostrano: è la zona dove vengono recluse le persone in attesa di deportazione, da sempre la più calda.

Sappiamo che le rivolte e le evasioni si susseguono senza sosta. Oggi, una volta di più, mandiamo la nostra solidarietà ai prigionieri della “guerra ai migranti”, a chi resiste nell’inferno dei CPR.

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w il turismo!

Dipiazza e giunta gioiscono delle migliaia di turisti che, in città per uno o due giorni, saturano le vie del centro, riempiono i baretti della Trieste che si vende al capitalismo del turismo di massa e diventano, nell’immaginario dei venditori di fumo, la salvezza dell’economia cittadina, il benessere per tutti e tutte, soldi alla città!

Ma come sempre quando si parla di facili entrate lo sono solo per qualcuno: padroni, corporations e banche. A* cittadin* rimangono i problemi: le vie affollate, i prezzi che salgono, le zone della città diventate inaccessibili e sempre di più la carenza di case.

È chiaro, rende di più affittare per pochi giorni a prezzi folli piuttosto che per lunghi periodi, e quindi via – come in tante altre città prima di noi – gli e le abitanti dal centro, semicentro, “zone di pregio”. Che sia dato tutto in pasto ai capitali, che sia tutto messo a massima rendita, e chissenefrega di chi qui vive, che si arrangi, che vada fuori dal centro, che si rassegni ad indebitarsi!

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La guerra è ovunque, anche all’Università di Trieste, fermiamola!

A sei mesi di distanza, la storia si ripete a Gaza. Dopo aver chiesto l’impossibile evacuazione di centinaia di migliaia di palestinesi affollati al confine con l’Egitto, l’esercito israeliano ha iniziato ieri l’offensiva a Rafah, ultima città della Striscia ancora “libera” dal controllo sionista. Durante la notte i carri armati hanno attaccato e bombardato centinaia di case. Secondo fonti palestinesi, i primi bombardamenti hanno provocato la morte di 20 persone, di cui 8 minorenni.

In questo contesto veniamo a sapere che nell’ambito di un’imponente esercitazione militare nel Mar Mediterraneo saranno coinvolte anche diverse università italiane.

Tra queste, l’Università di Trieste.

Come sempre più spesso accade, l’esercitazione non riguarderà solo il dispiegamento militare, ma anche operazioni di protezione civile a supporto di popolazioni calamitate: l’intreccio tra ambito civile e militare è sempre più stretto in un nodo mortale ed è, probabilmente, il motivo per cui verranno mobilitate – senza soluzioni di continuità – mezzi, personale e infrastrutture della marina militare, dell’esercito, dei carabinieri, della protezione civile, della croce rossa, degli enti di ricerca e delle università.

Una mobilitazione totale e permanente, in cui è un’intera società a rivolgersi, produrre e armarsi per la guerra, sia sui fronti esterni sia su quello interno (come accaduto già con la gestione militare della pandemia, o nei pattugliamenti dei confini in Carso).

Mentre il genocidio a Gazacontinua, lo fa anche la mobilitazione a sostegno del popolo palestinese, ovunque nel mondo, con un significativo protagonismo delle comunità universitarie, che rivendicano la fine delle collaborazioni con le università israeliane, con l’industria bellica (in Italia particolarmente con l’azienda Leonardo) e con l’Eni, firmataria di un accordo per l’esplorazione di giacimenti di gas di fronte alla costa di Gaza.

I e le student* hanno capito l’importanza delle strette interconnessioni tra accademia ed economia della guerra, e perciò hanno puntato il dito sulla complicità con il regime coloniale e genocida di Israele. In questo contesto, nelle prossime settimane, i Giovani Palestinesi hanno lanciato un’”Intifada delle Università”.

Aggiungiamo questo ulteriore tassello a questa tendenza strutturale alla guerra, perché possa essere smascherata, denunciata, bloccata. La guerra parte da casa nostra, fermiamola!

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25 aprile: cosa dire (e fare) di fronte all’orrore che ci sta attorno

Alla fine il corteo del 25 Aprile siamo riusciti a farlo. Avevamo chiarito dall’inizio le nostre intenzioni e così è andata: evidentemente qualche ragionamento qualcuno se lo sarà fatto nei locali della questura. Di fronte alle centinaia di persone convenute, e a un certo livello di determinazione e coscienza, qualcosa hanno dovuto concederlo. Possiamo vederla anche al contrario: è sempre possibile strappare qualche metro di strada, o qualche ora di tempo, con la giusta dose di volontà collettiva. Non tutto può essere controllato con lo scudo e il manganello, o qualche pezzo di carta timbrato.
Alla fine anche di questo si tratta nella nostra pratica militante. Rompere i tempi e gli spazi della quotidianità dietro cui si nasconde l’orrore dell’epoca in cui viviamo. Il 25 Aprile, per noi, non poteva che essere questo: mettere un po’ di sabbia nell’ingranaggio della commemorazione che, svuotando il ricordo (e forse dovremmo dire la trasmissione delle pratiche e dei valori) della Resistenza, vorrebbe normalizzare anche il presente. Lo ricordiamo quindi ai cravattari e agli ipocriti, ai poliziotti di ogni epoca e ai commentatori, anche perché gli altri – eredi postfascisti del regime, che siedono tra i banchi del governo – lo sanno già molto bene e ancora commemorano i loro morti (o non se ne accorgono i sarti e le carogne ogni 10 febbraio?): la Resistenza è stata insurrezione popolare, riscatto contro il nazi-fascismo, guerra di liberazione, fatta di boschi, strade e violenza contro gli oppressori; bestemmie, lacrime e sangue.
Qui dalle nostre parti, in particolare. È l’eroica resistenza del TIGR (oggi li metterebbero al 41 bis), degli scioperi operai (Salvini gli farebbe la precettazione) e della lotta (armata) comune, oltre le lingue e le linee di confine, anche contro i collaborazionisti e i profittatori dell’ultima ora, quando ad esempio – a regime caduto – si trattava di recuperare la struttura dello stato fascista in chiave anticomunista.
A chi pensa che – passate diverse decadi – si possa trattare la Resistenza come un fatto risorgimentale e pulito, gestito da buone borghesie e in perfetto ordine democratico, rispondiamo con i fatti, e anche con qualche bombone. Rispondiamo che di quegli anni preferiamo ricordare, e imparare, altro: lo slancio verso la liberazione, le comunità che si sollevano contro gli oppressori, lo spirito fraterno che si instaura tra i e le ribelli.
Belle lezioni, che ci insegnano anche – se solo si superassero le parole con le maiuscole: la Democrazia, i Valori, la Libertà, ad uso e consumo della mistificazione della storia e della realtà – l’importanza di attaccare le strutture del dominio (nazifascista, sia mai che qualcuno pensi ad un’istigazione, quando è solo apologia). Tradotto: le infrastrutture e la logistica dell’economia di guerra (i treni, ad esempio, non ancora ad alta velocità), come anche le sedi dei giornali collaborazionisti, i palazzi del governo, le strutture della repressione, le caserme e ogni altro dispositivo legato all’oppressione.
Cosa credete che attaccassero i partigiani? Sta fregna? 
Come credete che rispondessero quelli attaccati? Urlando alla diserzione, al terrorismo, ai modi scomposti; con le rappresaglie, la militarizzazione, i tribunali speciali e una buona dose di propaganda.
Ecco, ognuna a casa, o in strada, con le proprie letture. Ognuna a casa con le proprie scelte: una perquisa per entrare in Risiera o un corteo determinato, ad esempio. Perché anche su questo qualcosa, prima o poi, andrà detto: com’è che la Risiera, il 25 Aprile, da fatto sociale di memoria e comunità, si è tradotta in una caserma al servizio dei parrucconi? Li si potrà almeno mandare affanculo, o valgono solo le carte bollate in questo tempo che miscela, come solo la banalità del male è in grado di concepire, il pensiero perbenista e le stragi?
Un miscuglio pericoloso, quello tra benpensanti e apologeti di decoro e sicurezza, che apre la porta a nuovi fascismi lasciandogli spazio. Servivano le prove? Nella notte il monumento ai caduti della resistenza al cimitero di Sant’Anna viene imbrattato: “25 Aprile lutto nazionale” si legge scritto sopra la stella rossa e l’elenco dei caduti. Quella mano dice molto di più di quanto ci fanno credere: per chi – ed è una società intera ad andare in quella direzione – sta dalla parte della stretta autoritaria e guerrafondaia del nostro tempo, come può la Resistenza non essere lutto nazionale?
Ad ognuno i suoi lutti, a noi le nostre lotte!
Ma parliamo pure del linguaggio scurrile degli antifa, della macchina della municipale fermata in parcheggio, depistiamo e sviamo il discorso, così che quella scritta scompaia dalla memoria collettiva, non faccia incazzare né sollevi domande o azioni di protesta. 
Perché, alla fine, il cuore della questione è uno. Cosa dire, e quando possibile fare, di fronte all’orrore che ci sta attorno? Al genocidio automatizzato di Gaza, all’imprigionamento sociale, alla normalizzazione delle stragi in mare e lungo la rotta balcanica. Ai cpr, alle carceri. Alla mobilitazione permanente verso la guerra, che ci passa accanto, nelle ferrovie, nei porti, nelle industrie. Alla devastazione dei territori. Al capitalismo che ci spreme attraverso il lavoro salariato e il consumo obbligato, e che schiaccia i più poveri per impedire che alzino la testa.
Lo chiediamo anche ai sarti della bella civiltà, che – sordi ai discorsi e ai temi portati da chi vuole mettere in discussione il funzionamento del sistema – preferiscono scandalizzarsi per una bestemmia o per un petardo. Uno slogan dà semplicemente conto della gravità dei tempi. Qualcuno la sente, altri ci guadagnano: ecco tutta la differenza, ecco il vostro scandalo.
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25 Aprile: la Questura provoca ancora

A distanza di un anno, la storia si ripete, questa volta come farsa: dopo aver cercato di mettere al bando l’antifascismo nel suo giorno d’elezione e aver clamorosamente fallito, quest’anno la Questura giuliana ci delizia con il vecchio trucco della finta disponibilità. Nonostante l’avviso giunto con largo anticipo e le interlocuzioni verbali avvenute nella massima disponibilità, al momento di arrivare al dunque anche quest’anno scattano le prescrizioni per lx antifascistx.

Un breve riassunto dei fatti: il 16 marzo con una mail comunicavamo alla Questura la nostra volontà di organizzare un corteo antifascista con partenza da Campo San Giacomo alle 9 e arrivo in Largo Martiri della Risiera dopo essere transitati per via dell’Istria […] via di Servola e Ratto della Pileria. Circa un mese dopo, la Questura ci rispondeva, esprimendo perplessità sia riguardo all’orario di partenza che al percorso prima per via telefonica e poi convocando un incontro con la dirigente della locale Digos. Durante la chiacchierata, di fronte alle richieste della Questura, ribadivamo come per noi l’orario di partenza fosse fondamentale, mentre riguardo il percorso ci dicevamo più flessibili: per quanto ci piacerebbe poter scendere Ratto della Pileria, si poteva valutare un giro più lungo, attorno allo stadio, venendo così incontro alla loro esigenza di ridurre il numero di persone intorno alla Risiera, che quest’anno vede per la prima volta l’applicazione di nuove regole di sicurezza e quindi un tetto massimo agli ingressi e potenzialmente una presenza più massiccia di persone all’esterno (secondo la Questura). L’incontro si scioglie con promesse e rassicurazioni, ormai possiamo dire “le solite”.

Nelle prescrizioni arrivate ufficialmente il 15 aprile si “prende atto” delle esigenze espresse dagli organizzatori, ma nei fatti, poi, non si recepisce né viene incontro su nulla. Prescrivendo di “effettuare il preannunciato corteo il 25 aprile prossimo, con concentramento in Campo San Giacomo e partenza non prima delle ore 12:00 seguendo via dell’Istria […], via di Servola, via Carpineto, via Valmaura, via Flavia, via Milani ed arrivo in Largo Martiri della Risiera […] terminando entro e non oltre le ore 15” per il secondo anno consecutivo la Questura cerca di mettere il bavaglio a un corteo antifascista proprio il 25 aprile. Vengono prescritti orari e percorso modificati, a quel punto potevano anche non convocarci la volta prima.

Vogliamo che il corteo sia in contemporanea alle celebrazioni ufficiali perché vuole rappresentarne un’alternativa e una critica. Che il 25 aprile sia ormai una vuota e sterile pantomima, buona per mettersi la coscienza a posto a destra come a sinistra, non serve neanche perder troppe parole a ricordarlo.

Sono proprio le istituzioni locali a portare avanti per prime, nel quotidiano, atteggiamenti fascisti: nell’arroganza del Comune verso i comitati e collettivi cittadini che esprimono critiche e contrarietà sui progetti di gestione dei beni pubblici ed attraverso la marginalizzazione di migranti e persone in difficoltà; nella continua spirale repressiva della Questura, che da anni ormai va contraendo sempre più il diritto a manifestare, e nella persecuzione delle soggettività “scomode”, prostrandosi così ai desiderata di Comune e Regione nel creare una città-vetrina sempre più grande e sempre più a uso e consumo di turismo, speculazione, consumismo.

Come si possa pensare, infatti, che prescrivere un corteo il 25 aprile tra le 12 e le 15 per nessun’altra ragione che non salvaguardare il viavai di auto blu – perché questa è l’unica valida ragione che si scorge, tra le righe del solito “safety and security” e il provvidenziale paravento delle nuove norme antincendio che impongono una capienza massima dentro la Risiera risulta del tutto incomprensibile a chi il 25 aprile l’abbia celebrato anche solo una volta nella vita.

In aggiunta viene anche prescritto un percorso più lungo, che faccia arrivare il corteo in Risiera girando intorno allo stadio e non scendendo direttamente da Servola come era invece stato comunicato. Non avremmo avuto problemi ad integrare il cambio di percorso proprio per venire incontro alle esigenze di Questura e Prefettura di non affollare l’area antistante alla Risiera dal lato di Via Valmaura: l’applicazione di entrambe le misure è irricevibile, in quanto vuole relegare il corteo ad un orario in cui perde di significato ed incisività, mira a renderlo invisibile a chi partecipa alle celebrazioni ufficiali, silenziando e nascondendo agli occhi di cittadinanza e stampa lì presenti gli interventi e le critiche che il corteo porrà.

Evidentemente la Questura quest’anno cerca di non replicare la becera figura dell’anno scorso quando una gestione della piazza criminale aveva visto camionette e schieramenti antisommossa tentare di bloccare non solo il corteo ma anche l’accesso alla Risiera stessa mettendo piuttosto la maschera democratica di chi a parole tutela il diritto a manifestare, a patto che lo faccia obbedendo a tempi e percorsi scelti da loro.

Questo tentativo di imbrigliare le espressioni di dissenso in gabbie di orari e strade, pensate per nascondere e sminuire i contenuti e le richieste che i movimenti portano, non è nuovo e non si limita al 25 aprile per quanto misure restrittive alla libertà di manifestare risultino in questa giornata ancora più surreali del solito ma sono approccio ormai diventato prassi.

Da anni è quasi impossibile organizzare presidi e cortei in centro con motivazioni sempre più fantasiose, inclusa quella di non arrecare disturbo allo shopping.

Al contempo, la macchina della repressione si muove con forza sempre più spropositata: dagli schieramenti di agenti antisommossa in ogni occasione alle denunce che piovono con imputazioni esagerate e circostanziali, con ben pochi risultatati tangibili una volta arrivati in tribunale.

Un occhio meno attento, più malizioso o forse più propenso a vedere trame inesistenti parlerebbe persino di provocazione poliziesca, perché è del tutto naturale che come collettivo non abbiamo nessuna intenzione di accettare queste prescrizioni.

Ribadiamo quindi la nostra ferma intenzione di svolgere un corteo antifascista nella giornata più simbolica dell’anno.

L’appuntamento resta dunque per il 25 aprile alle ore 9 in Campo San Giacomo, più determinatx che mai, per dimostrare il nostro rifiuto e rimandando al mittente ogni ricatto poliziesco.

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Aggiornamenti dal CPR di Gradisca

Sappiamo quali siano le condizioni del CPR di Gradisca, di ogni lager di quel tipo. La tortura e la segregazione sono il loro ordine di funzionamento. Lo vediamo quando cerchiamo di portare qualche pacco ai reclusi all’interno: forze di polizia di ogni tipo, in costante tenuta antisommossa, a governare la macchina dell’internamento e della deportazione con il manganello.

Sappiamo anche quanto i reclusi all’interno siano combattivi e resistenti: le rivolte sono continue, i tentativi di evasione si susseguono. Viva la libertà!

Scriviamo tutto questo perché sappiamo che in questi minuti due persone, in un tentativo di evasione, sono salite sul tetto, braccate dalle guardie sotto. Minacciano di gettarsi nel vuoto, a questo sono costretti. Ci sono proteste in corso.

Mandiamo il nostro caloroso abbraccio a tutti i reclusi, a tutti i resistenti. E che tutti sappiano, così almeno da evitare i loro maledetti insabbiamenti, il silenzio in cui vogliono confinare le vite tra quelle mura!

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Solidarity not charity – Costruire comunità di resistenza

Dopo l’importante iniziativa di ieri, condividiamo alcuni pensieri, consapevoli che la questione del Silos non è un momento marginale, episodico, delle dinamiche complessive che vengono portate avanti a Trieste. È una vicenda che si inserisce direttamente nelle trasformazioni e nei piani di sviluppo della città (e di Porto Vecchio in primis). Basti pensare a quella zona cittadina e alle sue contraddizioni: un centro-vetrina più impostato per lo sbarco delle crociere e per il turismo in generale che per la vita della cittadinanza; l’inutile e dannoso progetto dell’ovovia come unica proposta di “mobilità sostenibile”; la guerra ai poveri dichiarata dal crescente dispiegamento militare e di polizia (con il ghetto Silos come sfondo). Tutti questi elementi convergono vertiginosamente, mostrando il senso e gli effetti di quanto sta succedendo a Trieste.
https://www.youtube.com/watch?v=MYfuRm6Duo8
Di fronte a questi scenari, rivendichiamo l’importanza della solidarietà e della costruzione di esperienze autonome dal basso, anche rispetto ai flussi migratori: un modo per superare innanzitutto la gerarchia razzista che governa le realtà interne ed esterne alla frontiera. La giornata di solidarietà di ieri in Silos ha mostrato che è possibile costruire – anche solo per qualche ora – delle comunità resistenti, trasversali, di lotta e socialità.
Solidarity not charity, il titolo dell’iniziativa, indicava un approccio concreto per riconoscere e riconoscerci all’interno della questione. Lottare assieme, costruire una resistenza prima di tutto politica, una solidarietà di classe e non (solo) umanitaria.
Le persone del Silos sono le stesse che vengono sfruttate nei cantieri della città, nei servizi di delivery, nell’agricoltura, a Trieste e altrove. Che si battono con il sindacalismo di base nei magazzini della logistica contro l’ipersfruttamento del settore, che finiscono nell’inferno dei CPR, e che non cedono neanche di fronte alla violenza più cieca della tortura, perché magari – un giorno – si troveranno senza documenti. Si tratta delle stesse persone che subiscono la violenza della polizia e delle sue istituzioni: per il rinnovo di un permesso di soggiorno o per un controllo in strada, in una guerra interna al povero, al diverso, a chi si ribella.
La situazione del Silos non è dunque solo il risultato dell’inazione del Comune, che pure come segnalato nella giornata di ieri avrebbe tutti gli strumenti per offrire riparo e conforto a chi ne ha bisogno. Lì a fianco c’è una struttura che lo permetterebbe fin da ora, ma evidentemente gli interessi sono altri. C’è la volontà di mantenere e tenere sotto controllo centinaia di persone in arrivo dalla rotta balcanica, in condizioni di sfruttamento e dipendenza, per renderle forza lavoro ricattabile come popolazione di scarto.
Di testimonianze e storie ne conosciamo a migliaia. Metterle assieme, per costruire esperienze di solidarietà, è ciò che può rompere questo meccanismo di segregazione e isolamento, utile solo a mantenere il sistema di oppressione di classe che governa le nostre vite.
Battersi contro il regime delle frontiere e dello sfruttamento è soprattutto una questione politica, non di umanità. È riconoscere le medesime condizioni di sfruttamento e controllo nell’intera società, trovando le alleanza possibili – e auspicabili – per combatterle. Concludiamo dunque portando la nostra solidarietà a due episodi di lotta, a due “incidenti” nell’ordine normalizzato:
– la lotta ai CPR come meccanismi di segregazione razzista dello stato, con il recente arresto di Jamal: resistere alla macchina delle espulsioni è possibile! Il nostro abbraccio a lui e a chi lotta.
– la giornata del Brennero del 7 maggio 2016, in cui una manifestazione blocca la frontiera italo-austriaca in seguito all’annuncio della costruzione di un muro anti-immigrati al confine. Una proposta che si inseriva nell’ottica complessiva del controllo e della violenza di frontiera lungo tutta la rotta balcanica. Una vicenda che a Trieste conosciamo bene, con tutte le conseguenze che continua ad avere sulle persone in movimento. Fra poco la Cassazione sarà chiamata a decidere sulle condanne a decine di militanti a oltre 100 anni di carcere complessivi. Solidarietà, una volta di più, con chi lotta contro questa sistema di devastazione e guerra!
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Sempre al fianco di chi ancora ci crede, sempre al fianco di chi lotta!

Esprimiamo solidarietà e vicinanza alle compagne e ai compagni di Corsica, della Magni*fica, delle Favoloske e dello Studentato Occupato di Firenze, che continuano in questi ultimi mesi ed anni a tentare di resistere alla violenza poliziesca e a rispondere ad ogni sgombero. 
Scriviamo questo comunicato per due ragioni: da un lato dare una restituzione di ciò che sta accadendo a Firenze a chi non conosce una realtà geograficamente a noi distante ma che ha, per varie ragioni, delle linee di contatto estremamente marcate con quella triestina e, dall’altra, per dimostrare il più grande sostegno e vicinanza a chi continua a rispondere con determinazione, amore e rabbia alla repressione dello stato, che si fa in ogni angolo d’Italia sempre più violenta e pervasiva. 
Ma quali sono i fatti?
Le compagne della Magni*fica, per tre volte negli ultimi anni, hanno cercato di riprendersi spazi pubblici abbandonati per costituire una casa delle donne transfemminista, e per tre volte sono state sgomberate a suon di manganelli e repressione, spesso per svendere quegli stessi edifici pubblici a nuovi proprietari privati. 
Le Favoloske, invece, in seguito ad uno spumeggiante Pride anti-istituzionale e intersezionale il 30 settembre, hanno deciso di rianimare un ex circolo con una Taz (Zona Temporaneamente Autonoma) di una settimana, per mostrare alla città come ci sia bisogno di spazi sociali in cui costruire dibattiti, assemblee, momenti di socialità e festa collettiva. Le forze dell’ordine anche qui non si sono fatte attendere e dopo un paio di giorni hanno deciso di sgomberare con la forza quella che sarebbe in ogni caso stata un’occupazione temporanea (lo stato, patriarcale com’è,deve ogni tanto mostrare i muscoli per sopravvivere e autoalimentarsi).
Ad agosto anche lo Studentato Occupato è stato sgomberato, uno spazio che da anni garantiva il diritto allo studio a ragazze e ragazzi che i prezzi astronomici di una stanza in affitto in città non se li potevano permettere, in un contesto in cui le case dello studente — come accade anche a Trieste — sono diventate soltanto nuove occasioni di privatizzazione e profitto.
Risale a un paio di settimane fa invece lo sgombero, effettuato a pistole in mano, di una ex banca in via Gramsci, spazio liberato dalle compagne dell’occupazione Corsica. A marzo 2021 la storica occupazione di viale Corsica 81, una ex scuola abbandonata, era stata sgomberata per poi venire rasa al suolo, all’unico scopo di mettere il terreno a disposizione della speculazione edilizia. Ma chi quello spazio lo aveva vissuto non si è lasciata abbattere, e dopo un corteo rabbioso, l’occupazione del tetto e un presidio stabile a Rifredi — il loro quartiere, la loro casa — è stato occupato un nuovo edificio, abbandonato da ben 8 anni, a pochi passi dalla vecchia casa. Anche questo edificio, con la violenta spinta del cosiddetto “Antiterrorismo” — sempre più usato in modo generale contro il dissenso politico — , è stato sgomberato ad agosto di quest’anno.
Perché tanta violenza? Perché tanta repressione?
Sembra che certi palazzi preoccupino molto alle istituzioni unicamente quando vengono occupati e ridonati alla collettività per creare spazi abitativi e sociali, biblioteche popolari, aule studio e luoghi di incontro e confronto. Pare invece naturale che quegli stessi palazzi vengano lasciati a marcire lungo le strade delle nostre città, diventando carne da speculazione, con il conseguente aumento degli affitti, e costringendo sempre più ai margini chi ai margini è già costretta a vivere.
Punirne uno per educarne cento, si suol dire. Perché chi mostra che è possibile strappare spazi all’economia neoliberista, alla speculazione, alle etichette, al decoro, allo spreco, deve essere punita. Non è ovviamente quell’edificio vuoto che viene rianimato il problema, ma il fatto che si possa intravedere un’alternativa, una breccia, una possibilità di stare assieme e vivere in maniera diversa. Questo è ciò che il potere punisce, reprimendo chi osa provarci per spaventare chi non ha ancora iniziato a farlo.
Ma non è vittimismo quello che vogliamo esprimere in questo comunicato, anzi tutto l’opposto. Ciò che vogliamo raccontare è il percorso di chi, nonostante gli sgomberi, le violenze e la repressione, ci crede e ci prova ancora!
Hanno manganellato uno spezzone ad un Pride? La risposta è stata un Pride indipendente, anti-istituzionale e intersezionale che ha permesso a compagne queer provenienti da tutta Italia di incontrarsi e camminare assieme. Hanno sgomberato l’occupazione di Corsica? E proprio da lì nascono momenti di aggregazione in piazza, presidi, concerti nelle strade, cortei e nuove occupazioni.
Un movimento, quindi, che osa rispondere agli sgomberi, alle manganellate, alle denunce, con determinazione e solidarietà, creando sempre nuovi spazi e momenti di socialità. Perché dove volevano paura, hanno generato rabbia; dove volevano deserto, hanno generato nuove forze per andare avanti. 
Trieste come Firenze?
Firenze, la città della gentrificazione e del turismo, e quindi delle tante cittadine e cittadini costretti ad allontanarsi dal centro e a frequentarlo solo per farsi sfruttare da un’industria del turismo sempre più di lusso. La Firenze degli Hotel, dei ristoranti e dei negozi esclusivi; dei locali a prezzi stellari che nessuna lavoratrice con uno stipendio normale può frequentare. La Firenze in cui anche un buco di monolocale di 20 metri quadri non si trova a meno di 600/700 euro al mese. La Firenze in cui il centro va infiocchettato, cacciando qualsiasi socialità diversa da quella dei bar e della movida.
Ma ora che Trieste si incammina sulla tanto prospettata strada della “città turistica”, dove finirà? Dove finiranno gli ultimi? Dove finiranno le persone “normali” che semplicemente 700 euro per un monolocale e 5 euro per uno spritz non se li possono permettere? Una Trieste in cui gli spazi di socialità alternativa semplicemente non esistono, in cui ogni edificio vuoto in centro o rimane tale per specularci o diviene un Hotel, preferibilmente di lusso. Una Trieste dove i pochi spazi verdi stanno venendo anch’essi svenduti mentre i triestini si ritrovano sempre più allontanati dalla città a favore di turisti e navi da crociera.
E chi prova ad aprire Brecce? Anche qui viene represso e perseguitato. Per cosa? Per mostrare come un’alternativa non sia possibile, per mostrare come i criteri del dio mercato siano gli unici . 
Il Giardino che era stato liberato e reso utilizzabile qualche anno fa in zona Cavana è ritornato ad essere sterpaglia, e dicono ora che ci faranno un albergo (sì, un altro!). L’ex Sacra Osteria, occupata per creare uno spazio di socialità alternativa e sgomberata in poche ore, è ancora lì vuota e decadente dopo 4 anni. Chi cerca di portare concerti e musica alternativa in città non trova spazi, chi cerca di portare la politica nel centro tendenzialmente viene manganellato o denunciato, perché il salotto buono deve restare intoccabile e distante dalla realtà di una società in cui i poveri sono sempre più poveri, dove centinaia di persone dormono per strada ogni notte e dove la politica partitica è sempre più distante dai bisogni reali delle persone.
No, Trieste non è Firenze, ogni città ha le sue peculiarità, ma il processo di gentrificazione e turistificazione che ci troviamo davanti sembra seguire di pari passo quello delle grandi città turistiche come Firenze, Venezia e Roma. Anche qui però, c’è chi non ha intenzione di farsi intimidire, c’è chi intende crederci, lottare ancora e rispondere alle violenze e pressioni poliziesche. Non sempre è facile e non lo sarà nemmeno in futuro, ma è anche l’esempio che ci arriva da altri luoghi che ci da la spinta per continuare a provarci. 
Ribadiamo ancora una volta la nostra solidarietà e vicinanza alle compagne di Firenze, e con allegria condiviamo le notizie che da loro sono arrivate sabato scorso: “Oggi abbiamo aperto un altro posto, per soffiare via la sabbia. Un luogo per chi guarda con sconforto, ma senza rassegnazione, al deserto che avanza: vieni a disertare anche tu!”
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Stecco libero subito! Viva la libertà!

Il compagno Stecco è stato arrestato qualche giorno fa dopo essersi dovuto nascondere per due anni a causa della macchina repressiva che gli si è scatenata contro. Molto attivo nelle lotte contro i confini e il sistema carcerario, vogliamo che si parli di Stecco per la persona che è e non per come lo dipinge la campagna mediatica, che lo descrive come un pericoloso terrorista, leader di un gruppo della criminalità organizzata.

Giornali che, senza un minimo di spirito critico, ricopiano le ridicole veline delle questure, le quali raccontano un certo tipo di militanza politica con le stesse forme di un’associazione mafiosa, adducendo a Stecco capacità di “leader”, compiti di “connessione con altre organizzazioni”, “logistica e propaganda”. Stecco è semplicemente una persona che scrive ciò che pensa e che intrattiene relazioni umane e politiche con altre persone, amici e compagne a cui lo legano affetti e ideali. In qualsiasi organizzazione anarchica non ci sono né capi né padroni ed è ridicola in generale la costruzione del mostro che è stata fatta col nostro compagno. Una narrazione e un livello di repressione ancora una volta spropositati: non vogliamo nemmeno provare a contare il denaro speso per arrestare una persona che, semplicemente, in gabbia non ci voleva stare. Stecco rischia moltissimi anni di carcere per aver partecipato ad una manifestazione contro le frontiere nel Brennero, per cui è stato condannato per reati minori come Resistenza o Interruzione di pubblico servizio, o per aver aiutato un compagno con dei documenti falsi. Per noi, militanti di diversa natura, la solidarietà disinteressata è la prima “arma” che caratterizza il nostro agire politico.

Oggi come sempre si svolge una caccia alle streghe alle compagne e ai compagni anarchic*, allo scopo di distruggere la spinta libertaria che lotta per una società giusta, basata sull’uguaglianza sociale e su un potere decisionale e orizzontale. Una spinta che si oppone apertamente allo Stato in quanto istituzione gerarchica e sfruttatrice la cui prima funzione è quella di proteggere sé stesso e le classi dominanti, anche – ma non solo – attraverso la violenza contro le classi popolari.

Uccel di bosco ha messo la sua libertà in gioco per lottare contro il sistema delle frontiere che impedisce il libero movimento delle persone, che le mette a disposizione dello sfruttamento di un mercato predatore e razzista. Nella convinzione che non sia un pezzo di carta – leggi passaporto – a renderci degni di vivere una vita libera e degna, Stecco è sempre stato in prima linea nella lotta contro i confini e ciò che rappresentano. Terrorista non è lui, ma gli Stati complici delle migliaia di morti nel Mediterraneo e sulla rotta balcanica.

Terrorista è lo Stato che reprime la dissidenza politica con ogni mezzo necessario, che incarcera le persone impoverite e costrette all’illegalità per sopravvivere. Carcerate e carcerati destinate a condizioni sanitarie pessime, morti premature, negazione della libertà, supplizio di Stato che raggiunge i suoi livelli massimi nella forma del 41-bis, considerata tortura perfino dall’Unione Europea. Nel frattempo, i veri criminali, quelli coi soldi, mantengono in uno stato di sfruttamento e ricatto tutta la classe lavoratrice e continuano a delinquere liberamente con il beneplacito dei politici.

Poi lo sappiamo quanto è labile il confine tra terrorista ed eroe nell’ipocrisia sociale. Terrorista è chi cerca di distruggere il potere, eroe è quando l’ha distrutto. Onore e reverenza a chi ha lottato per Trieste italiana mettendo le bombe sui treni austriaci – leggi Oberdan -, condanne di terrorismo a chi quel concetto di privilegio nazionalista lo vuole distruggere perchè consapevole che non sarà una Nazione a renderci libere e uguali. Stecco lotta per un mondo migliore, dove sia l’autogestione a organizzare la società in maniera orizzontale e senza soprusi. E noi con lui lottiamo.

Vogliamo Stecco libero e sorridente come noi lo conosciamo! Libere e liberi tutt*!

 

Compagne e compagni di Trieste