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L’ovovia a Trieste: i primi passi di una grande opera e il fronte dei boschi che si ribella

Vogliamo dare il nostro contributo sugli avvenimenti degli ultimi giorni intorno alla questione della cabinovia metropolitana di Trieste, progetto finanziato con i fondi del PNRR per la mobilità sostenibile che intende costruire un impianto a fune che colleghi la zona del Porto Vecchio in prossimità del centro città con l’altopiano del Carso in zona Opicina. Un’opera che, contrariamente al suo manto “green” costruito sulla retorica della sostenibilità e dell’innovazione, andrà ad impattare fortemente il territorio che attraversa e che, da tempo, vede una forte e variegata opposizione popolare. Le nostre riflessioni sono un punto di vista, una prospettiva tra le tante nel fronte dell’opposizione, che speriamo possano arricchire il dibattito e la mobilitazione in corso.


Ovovia: grande opera dannosa, inutile e costosa

Intorno al progetto dell’Ovovia aleggiano in città sentimenti ambigui, come se alla fine l’assurdità di questa opera inutile e dannosa bastasse di per sé a fermarne la realizzazione. Non è così. Le grandi opere – a maggior ragione quelle finanziate dal PNRR – hanno una funzione strategica, in termini generali sono ripristino delle catene di valore nel capitalismo in crisi. In soldoni, sono grossi affari di progettazione e costruzione (il finanziamento iniziale PNRR di 48 milioni è lievitato fino ad arrivare ad oltre 63 milioni, raggiunti con finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti e con fondi comunali) nella congiunzione tra pubblico e privato (nel nostro caso amministrazione comunale, governo, Unione Europea e la cordata dell’azienda Leitner) e poi, se non verrà fermato, anche di gestione dell’infrastruttura.

L’ecomostro sulla carta.
Come scrivono in altri luoghi, ma in situazioni per certi versi assimilabili, in fondo non è neppure necessario che l’opera si realizzi (anche se crediamo che, per come si stanno mettendo le cose, il rischio è reale, attuale e ormai pienamente dispiegato). “Ciò che appare evidente è invece come il “dispositivo ponte” [oppure “cabinovia”, o qualsiasi altra grande opera] serva a legittimare l’impianto ideologico sviluppista, una macchina di consenso e spesa intorno a qualcosa che probabilmente non esisterà mai. Un vero e proprio metodo, basato sulla “non fattibilità” di opere pubbliche e infrastrutture, in cui lungaggini burocratiche, dibattito politico drogato e permanere di grandi interessi che giustificano la necessità di apertura di cantieri diventano elementi funzionali a un processo che mira in realtà all’indirizzamento dei flussi finanziari, all’orientamento del consenso, alla gestione del territorio”.
Il punto, dunque, non è nemmeno solo l’opera di per sè, ma il piano complessivo di riorganizzazione di una fetta intera di città che, dall’enorme speculazione e riprogettazione di Porto Vecchio, passa per l’area di Barcola e risale sull’altopiano. La cabinovia è in questo senso un’infrastruttura strategica. Ecco cosa va fermato: non (solo) il progetto di una cabinovia, ma il processo complessivo di devastazione del territorio e accumulazione economica – non equamente distribuita – che si porta dietro.
In questa cornice, che alle volte sfugge per i suoi contorni così estesi e sfumati, abbiamo visto negli ultimi giorni muoversi le prime pedine sulla scacchiera. Sono iniziati i primi interventi propedeutici alla definizione del progetto: dopo i sopralluoghi della scorsa primavera ai fini degli espropri dei terreni, i rilievi sul territorio (come gli scavi effettuati in Via Pertsch a giugno e le trivellazioni ad Opicina), i movimenti di tecnici nelle strade limitrofe, ora arrivano le prime trivellazioni impattanti nella zona di strada del Friuli.
Molti hanno fatto notare che “il progetto di fattibilità tecnica ed economica approvato dal Comune nel dicembre 2022 e messo a gara, presenta vistose lacune sotto diversi profili: ambientale, geologico, trasportistico, finanziario, urbanistico”. Nonostante queste lacune, dal momento in cui è stato elaborato un progetto ‘preliminare’ per la realizzazione di una cabinovia metropolitana, si è messo in moto un processo che non si fermerà da solo. 
Le prime trivellazioni

Cosa succede quindi? Accade che sfruttando un’ordinanza sulla manutenzione del verde pubblico il Comune invia in Strada del Friuli una ditta che abbatte un ciliegio, il primo albero dei tanti che è previsto cadano per spianare la strada all’ecomostro. La vigilanza popolare è all’erta: possibile che avvenga un sacrosanto intervento di manutenzione e sfalcio del verde – a detta dei residenti, intervento sostanzialmente non pervenuto negli ultimi 15 anni – con la presenza di ben 5 tecnici comunali a dirigere i lavori, in un punto per giunta toccato dal progetto della cabinovia? Quello che apparentemente sembrava un normale intervento di manutenzione era un piccolo ma significativo moto nell’ingranaggio della megamacchina che si è messa in movimento.

I resti del ciliegio incriminato.
Il gioco viene presto svelato. Dopo il pretestuoso intervento di rimozione di un albero, compaiono i primi divieti di sosta per “esecuzione di sondaggi funzionali al progetto della cabinovia”, riguardanti le aree di Via del Perarolo, Strada del Friuli (nei pressi del civico 118), Via Braidotti e Via del Calcare (intersezione Via Carsia). La ditta esecutrice è la Tecno Geologia Perforazioni di Brescia.
Il lunedì successivo, quindi, una convocazione informale di residenti e solidali si dà appuntamento in zona, per monitorare i movimenti e verificare quanto accade. Una prima “utilità” decisiva della mobilitazione è questa: il presidio e il controllo popolare permette di leggere e interpretare i primi passi della grande opera, contro l’opacità con cui si muovono istituzioni, autorità e imprese coinvolte. Non basta, insomma, affermare con sicurezza che il progetto è “preliminare”, che ci sono pareri contrari, che i ricorsi al TAR sono ancora pendenti. Come dimostrano centinaia di casi in altri luoghi e altre situazioni, progetti di questo tipo si muovono come macchine schiacciasassi sul territorio, strisciando di volta in volta tra ostacoli burocratici ed iter autorizzativi sullo slancio del loro avvio e dell’inerzia che li tiene in moto. Il business è la priorità.
Il meccanismo va inceppato sul piano pratico. Il lunedì ci pensa un nubifragio, che si abbatte su Trieste e sulle zone interessate dai primi sondaggi, mostrandone la fragilità idrogeologica: smottamenti, alberi abbattuti e allagamenti sono l’espressione feroce del fronte della natura, che dobbiamo saper ascoltare. 
È sorda invece la macchina. Il giorno successivo, arriva la trivella in Strada del Friuli. Viene parcheggiata a bordo strada, qualche decina di metri sotto al punto boschivo dove dovrebbe sorgere il pilone W6, insieme ad una cisterna con l’acqua di raffreddamento per la perforazione (di metri e metri) prevista dal carotaggio. Iniziano quindi i primi lavori.
Per tutta la giornata la presenza di un presidio spontaneo segue i lavori, interroga gli operai coinvolti, mette in discussione la legittimità dell’intervento, mostra il dissenso verso l’opera. È chiaro a tutti – a chi presidia, anche sotto la pioggia; ai tanti, di passaggio, che a centinaia mostrano solidarietà – che quei sondaggi non metteranno mai in discussione la realizzazione della cabinovia metropolitana del PNRR, perché sono appunto “funzionali” al suo compimento.
La mobilitazione: il fronte dei boschi, il presidio popolare, il sabotaggio
Il fronte dei boschi non resta silente, avanza, e proprio accanto al ciliegio, la prima vittima del cemento che avanza, un tubo che abbevera la macchina perforatrice ne rimane tranciato. È violenza, questa? Vedendo la trivella che perfora il terreno, l’arroganza comunale, l’impatto devastante della grande opera, sembra più che altro un atto di resistenza legittima, un piccolo granello (si parla di un tubo dell’acqua tipo quello che avete in giardino) per inceppare appena un po’ il processo. È anche un modo per darsi tempo, rallentare e aprire spazi di discussione di fronte all’opera che avanza schiacciando tutto quello che incontra.
La trivella di Salò.

I giornali danno subito risalto alla notizia: il sabotaggio. Contrariamente al can can mediatico, agli scettici e ai politici, ci sembra del tutto superfluo interrogarsi sulla mano che ha compiuto il gesto. Un sabotaggio, come un blocco popolare, è una risposta possibile, e in alcuni casi necessaria, alla violenza istituzionale, alla devastazione del territorio, ai progetti del capitale pubblico-privato. Non si tratta nemmeno di dividere il fronte che si oppone all’opera: ognuno e ognuna si muove con i mezzi che ha disposizione, perché la partita non si gioca nel teatrino della politica e delle legittime posizioni di interesse, ma sul territorio che si abita, in carne ed ossa, senza mediazione. Se lo mettano in testa i politicanti che dal loro salotto fanno la morale, nella speranza di capitalizzare qualche consenso contro il doge demente (sì, parliamo proprio del sindaco alla prese in questi giorni con il complotto per indebolire il governo della sua amica Meloni). Qui parlano e agiscono le persone che vivono sul campo, che lo attraversano ogni giorno per andare a lavorare, che lo difendono e lo curano, che lo custodiscono. Giocano un’altra partita quelli che accumulano e valorizzano capitale – che sia economico, di potere, di consenso politico – che di quel territorio si fa beffe. Semplicemente una risorsa da sfruttare in un modo o nell’altro, per lorsignori. Per noi è altro: è vita, comunità, territorio liberato. In questi giorni, anche semplicemente un riparo fresco dalle torride giornate estive, perché il bosco a differenza del cemento mantiene un ambiente vivibile.

Crediamo che questo sia un buon esempio del modo in cui vada affrontata una lotta come quella contro l’ovovia: attraverso tutte quelle modalità che chi si sente aggredita dal progetto ha tempo e voglia di portare avanti. In quest’ottica apprezziamo molto il lavoro informativo e la lotta legale del Comitato No Ovovia. Ma visti i giochetti di imprenditori e Comune, che con una semplice deroga superano vincoli come quello di Natura 2000, non sembra sensato pensare che i procedimenti della giustizia possano da soli arrestare il progetto in così breve tempo.
La storia insegna: progetti faraonici come quello dell’ovovia, in cui si concentrano molti degli elementi del capitalismo odierno (trasferimento massiccio di soldi pubblici nel privato, sfruttamento di ogni pezzo di terra per il profitto di poche aziende, sfacciato greenwashing, autoritarismo decisionale travestito di processo democratico), vanno combattuti, per la loro complessità, da ogni fronte possibile. Un agire verso una stessa direzione che necessita del rispetto reciproco di tutte le modalità di lotta.
Un’altra cosa che vale la pena ricordare, in questi tempi di smobilitazione strutturale, è che agire dal basso serve a qualcosa. Non è solo un modo di esprimersi, di vivere, ma anche un modo di cambiare veramente ciò che ci sta attorno. Pensiamo alla lotta No TAV, che da più di venticinque anni riesce a difendere il proprio territorio mettendo sotto scacco uno dei progetti più distruttivi e costosi della storia italiana recente. Ma pensiamo anche alle lotte locali, quelle che spesso passano quasi inosservate, ma che hanno senz’altro effetti nella gestione del nostro territorio.
Il presidio spontaneo si convoca e si riconvoca in continuazione, il martedì e il mercoledì successivi, di volta in volta scegliendo come agire. Con la semplice presenza, disturbando i lavori, denunciando le irregolarità, facendo muro, chiacchierando con gli operai, alzandogli la voce (siamo umani, non carte bollate). La risposta istituzionale è chiara: già dal martedì aumenta la presenza delle forze dell’ordine a sorveglianza dei lavori, a difesa degli interessi di una manciata di tecnici, politici e capitali contro la volontà popolare. La trivella viene transennata, nasce il primo fortino dell’opera, la sua piccola prima trincea sul campo. Dura poco, perché – contro il tentativo iniziale di muoversi in sordina e il successivo, a cose fatte, di farne una questione di ordine pubblico – il fronte dei boschi e dei resistenti la spunta.
Dopo tre giorni di lavori a scatti, gli operai comunicano che non ci sono le condizioni per proseguire i sondaggi. Hanno bucato per 7/8 metri il terreno, senza arrivare ai 10 che si erano prefissati, ma preferiscono caricare macchinari e bagagli e ripartire. I giornali ne parlano? In alcun modo, tacciono. Perché ormai è chiaro che la notiziabilità di questo grande affare passa per i faraonici annunci di un grande cabinovia metropolitana per la mobilità (dei turisti, in realtà, ma non si può dire apertamente perché altrimenti cadrebbe la ragione del finanziamento del PNRR), sogno di un capitalismo delle grandi opere che fa finta che la natura non esista se non come risorsa da spremere. Molto meno interessa ai media la contestazione reale, quella che avviene fuori dai social e che ha effetti materiali.
Ecco un secondo punto decisivo: dopo la fase degli annunci, delle carte, dei progetti, ora la partita si cala nella realtà e da lì deve venire la risposta.
Le trivelle ripartono, la mobilitazione continua
Le trivelle sono ripartite, ma il fronte dei boschi continua a vivere, a sorvegliare il Bovedo, le strade lì attorno, la casa comune che abita, contro lo sfruttamento e l’abuso di chi vorrebbe governarlo, sfruttarlo e valorizzarlo con la forza.
Ogni vittoria, anche piccola, va festeggiata insieme.
“Invitiamo tutte e tutti a tenere gli occhi aperti, a partecipare in questa lotta attivamente. Siamo responsabili per gli spazi che abitiamo.”

Con queste parole, un gruppo di cittadine, residenti e solidali della zona direttamente colpita dal mega progetto rilanciava la mobilitazione dopo la prima occasione in cui ci si è opposte fisicamente alla costruzione dell’ovovia. Uno “stare in piedi” – in linea con le tradizioni della disobbedienza civile – che ha rallentato i lavori di trivellamento propedeutici all’impiantamento dei famigerati piloni. Una piccolissima – ma comunque rilevante – vittoria, complici le forte pioggie e pure i piccoli sabotaggi che qualcuno ha portato a termine.

Teniamone conto: là – tra i boschi, le strade e i sentieri – c’è un mondo intero che si ribella.

 

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Le meganavi o farsi il bagno vestite: cosa inquina di più?

Una polemica ferragostana che ha riempito le pagine dei giornaletti locali tra i bollini neri dell’autostrada, qualche femminicidio e le raccomandazioni per sopravvivere all’ennesima ondata di calore, fino a bucare le pagine delle grandi testate democratiche che devono rifarsi una verginità a sinistra. La polemica che ha permesso ai giovani precari giornalisti di fare la loro inchiestina intervistando improbabili opinionisti da spiaggia, mentre i colleghi veterani si occupavano di creare il siparietto ai sempre più inascoltabili politicanti.

La notizia in sé è un gravissimo episodio di razzismo che ha avuto luogo al Pedocin, unica spiaggia separatista d’Italia: alcune donne sono state insultate perché stavano facendo il bagno vestite in mare. Tra le motivazioni principali, urlate con convinzione dalle impavide paladine della cultura italica: il bagno vestite non è igienico. Dopo aver pisciato per anni in quei pochi metri cubi d’acqua vicini al principale porto petrolifero del mediterraneo, all’interno di quel golfo che da un paio d’anni accoglie centinaia di crociere, che inquinano l’aria e le acque quanto migliaia di macchine.

Smontata questa prima ridicola ragione, le rughe bruciate dal sole si irrigidiscono. Le voci si fanno più acute, diventando ancora più intolleranti, razziste e banali: “se sono qua, devono adattarsi alla nostra cultura” aggiungendo, a sostegno di ciò, che “l’ha detto anche il sindaco”. Sì, intendono quel personaggio che rivendica il diritto dei penemuniti di commentare i culi delle femmine. Quel sindaco che dieci anni or sono si è lanciato in giacca e cravatta a fianco del molo audace; un sindaco che fomenta l’intolleranza e rigetta chi ha più bisogno, che al momento lascia in stato di abbandondo più di quattrocento persone dentro il Silos; per cui l’unica cultura è quella del cemento, delle grandi opere, sempre inutili e impattanti, e del profitto di pochi “botegheri”; quello che, con la sua amministrazione, sta svendendo la città a capitali stranieri – solo se facoltosi, gli stranieri sono bene accolti in questa città – per creare strutture turistiche di lusso; che sta rendendo di mese in mese, di anno in anno, la nostra città una vetrina commerciale, invivibile per chi la abita tra la precarizzazione galoppante e il costo della vita schizzato alle stelle. Vetrina che presto diventerà una serra, a causa della cementificazione e del disboscamento del verde pubblico.

Chissà se alle signore del Pedocin verrà qualche dubbio sentendo sfrigolare la loro carne sotto i 40 gradi di questa torrida fine di agosto. Probabilmente daranno la colpa alle donne musulmane che, oltre alla loro cultura, hanno portato qua pure il caldo.    L’ultima, più profonda e intellettuale tra le motivazioni per cacciare donne – presumibilmente di religione musulmana – da una spiaggia ritenuta “spazio sicuro”, motivazione ripresa anche dall’assessore regionale Scoccimarro (a cui scappa “per sbaglio” il braccio teso quando si ritrova “casualmente” tra camerati): l’intima preoccupazione che queste donne non siano libere di vestirsi come vogliono, arrivando a contraddire in modo ipocrita la prima asserzione per cui al Pedocin non si può fare il bagno vestite.

L’unica azione empatica e solidale è stata invece organizzata e messa in campo da un gruppo di donne che hanno deciso di dare una risposta a questo attacco razzista. Una risposta semplice e istintiva: un grande bagno collettivo, liberatorio e determinato,tutte vestite ognuna a modo suo. Insomma, la riappropriazione di uno spazio teatro di pratiche fasciste. La speranza è che l’azione sia riuscita a comunicare la violenta sterilità della polemica su come vestire, e che le donne vittime di aggressione possano tornare a testa alta in quella spiaggia, vestite come pare a loro.  Durante questa azione non è mancata l’invasione machista di uno spazio che doveva essere sicuro, di sole donne: giornalisti, poliziotti, e fascisti con tatuaggi innominabili, crocifissi e proiettili al collo sono entrati facendo ciò che pareva loro, malgrado le proteste di tante.  Per le vittime di ogni razzismo, della violenza delle frontiere interne ed esterne, dello sfruttamento e della repressione, del fascismo e del razzismo che dilagano nella quotidianità delle città in cui viviamo: imponiamoci di rispondere sempre, colpo su colpo, senza mezzi termini e senza compromessi.

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[22/08] La repressione non va in vacanza – Assemblea/aperitivo #3

In preparazione alla giornata del 23 settembre e per continuare ad incontrarci in piazza per parlare insieme di repressione (cos’è, come colpisce ognuna di noi e soprattutto come possiamo farci fronte), l’Assemblea contro la repressione di Trieste lancia un’assemblea-aperitivo martedì 22 agosto alle 19:30 in Campo San Giacomo.
Vogliamo, dunque, continuare la discussione collettiva avviata a inizio estate e iniziare a costruire assieme il benefit antifascista del 23 settembre, organizzato al seguito dell’avvio delle indagini contro 8 compagne colpevoli di aver partecipato, assieme a tantə altrə, al corteo del 25 aprile. Perché i digossini forse sì, ma la repressione non va in vacanza.
Come ormai è noto, le perquisizioni fatte a giugno nelle case di varie compagne (durante le quali sono stati sequestrati, tra altre cose, computer e cellulari con accuse veramente ridicole) sono state seguite da una storia da giallo di bassissimo livello: il vetro di una macchina spaccato in mezzo alla notte da un gruppo di “ignoti”, il furto di oggetti inutili (tranne il pregiatissimo sciroppo di sambuco) e una microspia messa maldestramente tra i cavi sotto il volante.
Sono soltanto gli ultimi eventi concreti della repressione locale, ma vogliamo ribadire ancora una volta come la repressione sia una strategia generale, messa in campo dai poteri statali allo scopo di mantenere uno status quo fatto di sfruttamento, intolleranza e tristezza. Ai meccanismi che tentano di colpire individualmente per spezzare le collettività, noi vogliamo rispondere con più comunità e più solidarietà.
Ci vediamo martedì 22 agosto alle 19.30 in Campo San Giacomo, per un momento di discussione e convivialità!
Assemblea contro la Repressione
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[11-13/08] Che si rivoltino tutte le frontiere!

È morta un’altra vita, Moussa, un giovane guineano, mentre la speranza gli muoveva le gambe tra gli ultimi ostacoli del tritacarne, sulla frontiera del Monginevro, lunedì.

Sta morendo un’altra vita, un giovane pakistano caduto in un cantiere, trasportato come macerie da nascondere mentre lavorava sfruttato a Trieste, martedì.

All’atrofia della conta asettica delle morti, alla catatonia dell’impotenza e della paura, rispondiamo con la passione, le lacrime e la rabbia: rifacciamo scorrere l’esigenza di giustizia nelle vene, il coraggio per cui anche sotto regime si può rispondere, la generosità che il privilegio ci concede di usare.

Rispondiamo unite e determinate sull’origine di tutto ciò: la frontiera. Rispondiamo per noi stesse, per la nostra umanità. Rispondiamo perché è intollerabile che esista questo tritacarne fatto per fornire vita esauste e sfruttabili al capitalismo occidentale.

Che tutte sentano il momento, perché il numero determina la portata: per la prima volta ci troviamo a disturbare la frontiera orientale.

Visibilizziamo quel simbolo di morte, aperto solo a merci e documenti accettabili, chiuso alla speranza di un’esistenza migliore. Per la vita, per l’umanità, perché unite si deve e si può reagire.

Venerdì 11/08 ore 19:00 // piazza Libertà, assemblea pubblica

Domenica 13/08 ore 18:00 // parcheggio della frontiera di Fernetti, presidio

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E vennero a metterci le spie in auto

Sabato mattina unə nostrə compagnə è statə svegliatə dai vicini perché qualcunə le aveva rotto il vetro dell’auto. Un furto strano: cd masterizzati, l’adattatore del gpl, un bicchiere, una borsina regalo con erbe dell’orto e... un sambuco fatto in casa contro la repressione (calza proprio a pennello, vedi sotto l’etichetta!). Ogni città è paese, e qualche vicinə aveva infatti visto 4 uomini, con fare discreto e indisturbato, entrare e uscire da quell’auto la notte prima alle 23:30, subito dopo un rumore di vetri rotti: uno entrava dalla parte del passeggero e trabiccolava sporgendosi fino al lato dell’autista, gli altri tre stavano sotto il lampione. Tanto incuranti dei passanti che sembrava fosse la loro auto. Chissà se loro stessi o dei colleghi hanno poi lasciato il bigliettino della questura trovato sul tergicristalli che suggeriva di presentarsi per denunciare il fatto.  
Nel rimediare al danno pulendo la macchina un pezzo sotto il volante, vicino ai pedali, era fuori posto e seguendo un filo si è trovata la microspia.

Ma perché è stata messa? Non lo sappiamo. Sarà per la solidarietà mostrata verso le persone rinchiuse nel CPR di Gradisca per non avere documenti regolari? Sarà per l’appoggio mostrato alla battaglia di Alfredo Cospito contro il 41 bis? Sarà per l’opposizione all’ovovia, proprio in questo sprint estivo in cui i tecnici si stanno presentando alle porte con le planimetrie per l’esproprio? 
L’essere sensibili, e non indifferenti, all’orrore dei CPR, all’atrocità del 41 bis e alla devastazione ambientale per noi non è una colpa, è piuttosto la nostra unica maniera di vivere umanamente, nonostante l’atrofia che spesso percepiamo attorno.
Preoccupa però, per l’ennesima volta quest’anno, la sproporzione delle azioni di procure e questure. Sembra il tentativo non tanto di reprimere episodi specifici, quanto di affogare chi prova a rimanere a galla in quella melma di individualismo e controllo che ci circonda.
Qualcuno diceva che una società ingiusta ha sempre bisogno di reprimere dei criminali per legittimarsi. La soglia sopra la quale qualcunə diventa tale la determina però la società stessa: nei periodi di maggior paura a reagire anche solo l’avere una certa idea può diventare sufficiente. La mente ci corre veloce a Perugia e a Potenza, dove negli ultimi mesi sono state aperte delle indagini per 270 bis (associazione terroristica!) per aver mostrato pubblicamente appoggio alla lotta intrapresa da Alfredo Cospito contro il 41 bis (in un caso per uno striscione), o a Bologna e Rovereto, dove è stata aperta un’indagine analoga nella quale un cassonetto in fiamme è considerato come un “attentato”. Allora, l’unico rimedio che ci pare necessario venga messo in campo è quello che esiste già: reagire collettivamente all’intollerabile sensazione di avere un lager per persone migranti a Gradisca; al pensiero che mentre guardiamo il cielo qualcuno boccheggia sotto tortura bianca, in 41 bis, a Tolmezzo; all’imposizione vorace e prepotente di una maxi opera nel bosco Bovedo. Reagire colletivamente alla chiusura dei consultori a Trieste, all’espansione della SIOT a Paluzza, alla violenza di genere e al clima di guerra che avanza. Reagire, e in questo modo, non avranno abbastanza microspie e orecchie per tenerci sotto controllo, e, tuttə, saremo più felici e un po’ più umanə.
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[23/09] Giornata antifascista! [Assemblea contro la repressione]

Sabato 23 settembre in piazza Sant’Antonio daremo vita ad un grande evento di solidarietà antifascista. Sarà un’occasione per fare rete, incontrarsi, portare i nostri valori di antifascismo intersezionale nel centro città e raccogliere qualche soldo per la cassa antirepressione!

L’iniziativa sarà strutturata in due parti: un momento di dialogo, approfondimento e dibattito su vari temi connessi all’ Antifascismo e un secondo momento che vorremmo fosse una “Call for artists” sempre sullo stesso tema!

Artiste e artisti di ogni tipo, contattateci per suonare, dipingere, cantare, esporre, danzare, recitare o qualsiasi altra cosa abbiate voglia di condividere su ciò che per voi significa, oggi, “Antifascismo”.

Lo abbiamo detto in tante anche quest’ultimo 25 aprile e lo vogliamo ribadire con forza: l’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo!

La repressione si affronta con la solidarietà e con l’azione!

Ci vediamo il 23 settembre, e sicuramente anche ben prima, nelle piazze e nelle strade di questa città!


Perché abbiamo pensato ad una giornata come questa?

Quest’anno il 25 aprile la Questura di Trieste ha vietato che si svolgesse un corteo antifascista così che mentre alcune di noi si recavano in passaggiata sui marciapiedi, alla Risiera, le camionette dell’antisommossa bloccavano assurdamente il traffico.

Nei pressi della Risiera la situazione ha assunto i toni del grottesco: separate dalle nostre compagne da un cordone di polizia, non potevamo se non gettarla sul ridicolo, e così, grazie ad una una palla gialla accorsa in nostro aiuto si è svolta la prima partita di volley militante. Ma si sa: “spesso gli sbirri e i carabinieri al loro dovere vengono meno. Ma non quando sono in alta uniforme…” E così son partite le manganellate che hanno colpito le compagne, alzando ulteriormente e inutilmente il clima di tensione.

Ora dalla Questura sono state individuate 8 di noi come responsabili a vario titolo di una serie di reati di cui dovremo rispondere, tra questi ad esempio quello di travisamento, che, oltre ad essere un retaggio fascista, in un epoca post pandemica ed in una giornata di pioggia quale era quella del 25 aprile assume una nota tragicomica.
Ma altre saranno le occasioni per raccontare quello che è avvenuto.

Quello che ci preme ora sottolineare è che crediamo noi si debba continuare a stupirsi e stupirci tutte assieme.

Le motivazioni che ci hanno spinto in piazza il 25 aprile e che ci spingono a mobilitarci ogni giorno contro il fascismo, contro le violenze poliziesche dentro e fuori Cpr e galere, contro le discriminazioni di genere e di orientamento sessuale, contro la gentrificazione e la turistificazione della nostra città, contro le devastazioni ambientali (e tanto altro!) continueranno a spingerci a non fare un passo indietro anche davanti alla repressione che ci colpisce.

La Questura di Trieste prende ormai ogni “palla” al balzo per cercare di reprimere con sanzioni e processi chiunque si esponga politicamente fuori dalle istituzioni, ma crediamo che non debbano essere questi mezzucci a farci desistere.

Ci piace pensare e sperare che davanti a questi atti polizieschi il cui scopo è perseguitare pochi individui per isolarli e cercare di frenare la lotta per un mondo libero da disuguaglianze, discriminazioni e confini, la vera risposta non possa essere che una presa di responsabilità collettiva e una volontà collettiva di stringere ancora di più le reti e i legami di solidarietà.

Perché la repressione ammazza le lotte se vissuta in solitudine.
Perché non riguarda mai solo la singola compagna.
Perché la repressione quando colpisce ci riguarda tutte.

L’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo.

Assemblea contro la repressione

 

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Contro la SIOT, la montagna si ribella!

Contro la devastazione dei territori e il profitto dei pochi (in questo caso le multinazionali del petrolio e del fossile), la montagna si ribella!

Nel weekend si è tenuta a Paluzza una due giorni di iniziative e mobilitazione contro i piani di allargamento della SIOT.

Nel comune carnico, come anche a Dolina, la SIOT – non paga del mastodontico progetto dell’oleodotto transalpino – vuole imporre sulla testa delle popolazioni delle centrali di cogenerazione a gas. Tutto ciò, spacciandole per misure di abbattimento delle emissioni ed efficientamento energetico (a metano, bella sta storiella del green!). La solita operazione per incrementare i profitti e prendersi un giorno gli incentivi pubblici, che va ad estendere un progetto già devastante come l’oleodotto transalpino.

Resistere alla devastazione dei territori è il primo passo per lottare per la giustizia sociale e climatica. L’unico oleodotto che ci piace è quello che fa il botto!

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[18/07] Burjana Outdoor – Famolo strano!

Diciamo subito una cosa: l’idea perplime anche noi. Una pazzia, una provocazione o un passo falso: cosa ne sarà di questa Burjana lo sapremo solo dopo martedì prossimo. 

Perché sarà ANALCOLICA.

TRE MOTIVI (quasi) CONVINCENTI PER LANCIARE UNA BURJANA OUTDOOR ANALCOLICA (in Friuli Venezia Giulia)

      1) Perché VOGLIAMO TRASGREDIRE
In qualità di abitanti del nord-est sappiamo bene che l’alcol, come Mediolanum, è tutto intorno a noi. Gesto automatico, comune alle più diverse socialità, il “bersi un bicierin” meriterebbe di essere oggetto di una seria riflessione. Ma siccome siamo pigri e incoscienti, e soprattutto perché è luglio, tenteremo invece un esperimento sociale potenzialmente catastrofico per la nostra specie: strappare via la placenta alcolica come un cerotto, andando a esporre la carne viva e troppo sobria sotto.
Magico lubrificante di interazioni sociali, porto sicuro dell’inizio settimana, abbraccio amoroso e stordente, oppio dei popoli burj
aneschi – l’idea di negarci questo portento che è la tradizionale birretta del martedì ci sconvolge al punto tale da elettrizzarci, e questo ci basta per sentire il magico brivido della trasgressione.

      2) Perché ci SPECULIAMO
A parte il titolo che è un grossolano clickbait, i fatti rimangono, e sono granitici: essendo una realtà informale, e spesso inguaiata, non viviamo di progetti UE o stanziamenti di budget, ma di risparmi personali e briciole raccolte grazie alle vostre (e nostre!) offerte libere. Che al momento sono giustificate principalmente dall’erogazione di bevande alcoliche. Ci chiediamo, allora, se non sia possibile che questo avvenga su un’altra base, con un altro pretesto, in un modo un po’ diverso. C’è un modo altro di coltivare fermento politico attivo senza promuovere allo stesso tempo una socialità mediata per forza sul piano etilico?

      3) Perché stavolta CI SIAMO IMPEGNATE DI PIÙ
A torto o a ragione, per entusiasmo sfrenato o per compensare il timore di star facendo una cazzata, in questa Burjana Outdoor ci abbiamo investito più del solito. Dal discutere i motivi più profondi di questa intuizione, all’organizzarne la logistica, abbiamo fatto straordinari per buttar su questo esperimento. Un thinktank invidiabile che ha partorito idee all’avanguardia come:
   – mettere GHIACCIO VERO dentro COCKTAIL FINTI,
   – promuovere un CONTEST DI BARISMO dove ognuno può miscelare il proprio intruglio e vincere un prestigioso contest,
   – improvvisare una jam session con gli strumenti che portate VOI,
   – rivivere l’amarcord di una partita di pallavolo che ricordiamo con rabbia e gioia (anche se non fanno più le reti di una volta…)
E TANTE ALTRE SORPRESE ANCORA!!!

Non vi abbiamo convinto?
Venite a insultarci martedì in campo San Giacomo, come    sempre dalle 18.30!

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Notizie e comunicati

Dalla parte di chi prova ad abbattere quelle mura

Qualche giorno dopo il weekend di mobilitazione contro i CPR e le frontiere, ci teniamo a condividere alcune considerazioni su questi due giorni.

Chi ha partecipato e portato i generi di prima necessità ai reclusi non lo ha fatto per spirito di carità, ma perché ha intimamente capito che in quel luogo di tortura i pacchi che abbiamo consegnato possono trasformarsi in mezzo per allargare le maglie di un sistema che attraverso privazioni e violenza si traduce in tortura.

Il cibo che abbiamo messo dentro a quei pacchi potrà forse aiutare qualcuno a rifiutarsi di mangiare il cibo fornito all’interno del CPR da Ekene, la cooperativa che lo gestisce. Dentro quelle razioni – a Gradisca come negli altri CPR – vengono infatti nascosti psicofarmaci volti ad ammansire i prigionieri (o ospiti, come li chiamano loro). Da qui il significato politico dei generi alimentari, non abbiamo mai voluto rendere più vivibile quel centro di tortura amministrativa.

Un grande grazie anche alle compagne che sono venute a presentarci I CPR si chiudono col fuoco. L’opuscolo (disponibile qui) presenta le testimonianze delle persone rinchiuse e delle rivolte che quest’inverno hanno bruciato molte sezioni del CPR di corso Brunelleschi fino a provocarne la chiusura.

Noi siamo convinte: le affinità politiche più strette si legano attraverso la condivisione delle pratiche di lotta, e per questo ci teniamo a rimandare alla prossima chiamata nazionale, il Passamontagna del 4-5-6 Agosto. Invitiamo chi può a essere presente: la pretesa sovranità degli Stati sui confini nazionali si spezza attraversandoli.

Segnaliamo poi una vicenda estremamente grave, a dimostrazione che la mobilitazione e la solidarietà sono sempre più necessarie per rompere quello stato di invisibilità e isolamento in cui i CPR sono confinati. Nei contatti avvenuti in questi giorni con l’interno abbiamo infatti scoperto che una persona tunisina è in sciopero della fame da tre settimane e negli ultimi giorni è stato portata in ospedale a seguito di atti di autolesionismo. Ieri sera è stato riportato al CPR, ma in una cella e in un’area distanti dai compagni che, in solidarietà, avevano iniziato a rifiutare il cibo. È la seconda volta che intraprende il digiuno nell’ultimo mese, in segno di protesta verso la detenzione arbitraria a cui è sottoposto. Ha avuto problemi politici in Tunisia a seguito delle rivolte della primavera araba, ma nonostante questo la sua richiesta asilo è stata respinta come “pretestuosa”.

Ma le voci dai CPR, per chi vuole ascoltare, parlano di abusi costanti e di persone che nonostante tutto non si piegano: le proteste e le rivolte sono continue, anche se rimangono nel silenzio colpevole di quelle quattro mura. Sta anche a noi farle risuonare, portando solidarietà e appoggio.

Ringraziamo anche per questo le forze dell’ordine, la Prefettura di Gorizia e la cooperativa Ekene che, gelosi di mantenere le persone rinchiuse, sedate e isolate, hanno negato con la forza al presidio di spostarsi sotto le mura del CPR e, sempre con la forza, hanno impedito ai reclusi di far uscire le loro voci da quelle stesse mura.

Come ribadito più volte durante i dibattiti, le persone rinchiuse sono pienamente consapevoli dell’ingiustizia e della violenza che sono costrette a subire all’interno del CPR, tanto da arrivare al punto di mettere a repentaglio il proprio futuro e le proprie stesse vite per far cadere quel muro. C’è chi ha rischiato il rimpatrio per far uscire la testimonianza di un omicidio, c’è chi ha rischiato la pelle per distruggere le mura, il ringraziamento più grande va a loro. Il bisogno profondo di libertà è più potente dell’oppressione quotidiana e soffocante, e il minimo che possiamo fare da fuori è sostenere e amplificare queste voci e questa lotta che riguarda tutti e tutte.

Solidali con chi subisce la violenza dei CPR e delle frontiere e dalla parte di chi prova ad abbattere queste mura.

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Iniziative

[29/06] Assemblea pubblica per la libertà di movimento – Contro hotspot e criminalizzazione delle migrazioni

[Giovedì 29 giugno – Ore 18:30, Campo San Giacomo]

Come ogni estate sale la temperatura sulla frontiera orientale. Mentre dalla rotta balcanica continuano ad arrivare i sopravvissuti in fuga dalle guerre, dalla miseria e dalle crisi climatiche, si rincorrono nuovamente le voci di una nuova stretta sui-lle migranti. Complice anche il nuovo governo, l’ipotesi dell’apertura di un hotspot in regione si fa sempre più concreta: significa, in parole povere, la creazione di un campo chiuso per la prima identificazione dei migranti che varcano la frontiera, dove operare la selezione di chi sarebbe degno di accoglienza e di chi invece andrebbe respinto (o espulso, riammesso, trattenuto in un CPR). Da parte del Comune, invece, il sindaco non trova di meglio da dire che affermare che i migranti – in attesa magari di un posto in accoglienza a cui avrebbero diritto – sarebbero dei “maleducati”, colpevoli di non avere un posto migliore dove stare, perché pervicacemente negato dalle politiche del comune e della prefettura. E come la scorsa estate si decide di affrontare la questione in puri termini polizieschi: presidio fisso delle forze dell’ordine in piazza libertà.

Si tratta di ulteriori tasselli verso la deriva autoritaria nei confronti dei migranti, condita dalla solita propaganda razzista: l’obiettivo – neanche più troppo velato – non è tanto arrestare i flussi migratori, quanto invece gestirli e filtrarli con l’unica intenzione di creare soggetti terrorizzati e ricattabili, da usare nel mercato dello sfruttamento del lavoro. Funziona così da anni: si limitano i diritti e le libertà, anche a colpi di violenze e intimidazioni, per giocare sui corpi delle persone la solita partita delle nostre economie cosiddette sviluppate.

A partire dalle condizioni in cui versano le centinaia di persone che arrivano a Trieste – chi in transito verso altri luoghi, chi per richiedere asilo qui e ora – e dall’esperienza di cura e solidarietà che viene portata avanti ogni giorno in Piazza Libertà, vogliamo lanciare una prima assemblea pubblica sul tema, per non lasciar cadere nell’indifferenza questo nuovo attacco alla libertà di movimento delle persone.

Burjana // Linea d’Ombra ODV