Il territorio della nostra regione è sotto attacco, ormai da anni, su più fronti.
La salute dell’ambiente e delle persone che ci vivono viene costantemente attaccata da progetti assurdi e dannosi, utili solo al profitto di pochi.
L’ovovia di Trieste, l’inceneritore di Spilimbergo, l’acciaieria di San Giorgio, la Siot sono solo alcuni di questi.
Ne parleremo martedì con alcune persone del Comitato Tiliment liber/Tagliamento libero e di Fridays for Future, persone attive nelle lotte contro questi mostri. Lotte che, come vedremo, si possono vincere!
Il primo maggio, giorno simbolo della lotta di lavoratori e lavoratrici per ottenere salari, diritti e condizioni di lavoro migliori è quantomai importante ancora oggi e non come IL giorno di lotta, unico nell’anno in cui scendere in piazza, ma come UN giorno di lotta in cui è semplicemente più facile prendersi le strade.
Viviamo in un mondo in cui crisi energetica globale, conflitti sempre più disumanizzanti e la cieca rincorsa al profitto a ogni costo dominano politica e interresi capitalistici. Chissenefrega del clima, degli esseri viventi e della qualità della vita delle persone. La tutela del Profitto –privato– è oggi più che mai l’unico obbiettivo di governi e amministrazioni: lo vediamo in tutte le riforme, leggi e bonus creati ad-hoc per non intralciare gli interessi di grandi corporation e padroni.
Il Capitale deve crescere, non importa se grazie allo sfruttamento del territorio e delle sue risorse, alla compravendita di armi e morte o allo sfruttamento di lavoratori e lavoratrici.
La flessibilità del lavoro viene sbandierata come desiderabile e competitiva, meglio ancora se abbinata alla disponibilità di lavoratori e lavoratrici a essere sempre contattabili, dispost* a lavorare ore extra (gratis, chiaramente). I salari però restano al palo. Nel frattempo affitti e prezzi salgono ogni anno di più. Secondo i dati dell’IMF il 45% dell’inflazione da inizio 2022 a oggi è causata dall’aumento dei profitti: come al solito la famosa “crisi” significa impoverimento dei popoli per arricchire le tasche di pochi!
Anche nel piccolo della nostra città vediamo come politica e affaristi rincorrano solo il profitto a ogni costo: grandi navi e ovovia sono sbandierati dall’amministrazione comunale come l’un’occasione di ripresa economica della città. Si sceglie di inseguire il turismo di massa e la devastazione ambientale in cambio di impieghi sottopagati, stagionali e precari, mentre proprietari di alberghi, bar e ristoranti si riempiono al solito le tasche sulle nostre schiene. Stage non retribuiti, periodi di prova in nero mai rinnovati, orari di lavoro al limite dello schiavismo si nascondono dietro ogni offerta di lavoro.
Intanto i prezzi nel centro città diventano impossibili: affitti di monolocali o bilocali superano i mille euro, bettole e negozietti chiudono per dare posto a bar e alimentari di lusso a esclusivo uso e consumo dei turisti e di quella minuscola fetta di popolazione che può permetterseli. I rioni periferici sono invece ignorati, l* abitanti inascoltat* e svilit*.
La crisi climatica è causata in massima parte da chi sta seduto nelle stanze del potere e continua a foraggiare il mercato del fossile e quello delle armi, da chi per mettere un pugno di milioni nelle tasche del padrone di turno abbatte boschi, buca montagne e draga i mari, da chi continua a seguire il mito della crescita perenne. Siamo stanchi e stanche di pagare il prezzo della loro avidità, di veder eroso il nostro spazio di vita in città, sempre più schiacciato fuori dai quartieri da turistificare, fuori dai luoghi che devono essere per i ricchi, sempre più cementificato e grigio. Per cercare di farci stare zitti e zitte ci chiedono di tenere giù la testa a lavorare senza lamentarci, mentre la politica si serve della questura oliando e spingendo la macchina della repressione, come solo in anni molto bui ha osato fare in passato.
Il primo maggio saremo anche noi in piazza proprio per riprenderci una giornata di contestazione che è la nostra, dei lavoratori e delle lavoratrici, delle studentesse e dei disoccupati. Vogliamo ribadire chiaramente che c’è bisogno di forza, determinazione e cambiamenti radicali per affrontare le sfide sociali.
Basta cercare di rattoppare un sistema capitalista in crisi perenne, basta cercare di tutelare gli interessi dei ricchi del pianeta, basta politiche che scaricano su* ultim* i fallimenti di un modello economico disastroso. Non sono posizioni pacificatrici nei confronti dei governi che daranno risultati, ma un’opposizione tenace contro ogni prevaricazione.
Ci vediamo il primo maggio, con i sindacati di base e gli altri spezzoni movimentisti della città, ore 9 campo san Giacomo.
[giovedì 26 ottobre, 18:30, “Bibitando e Magnando” – Via Dell’ Istria, 24 -Trieste]
Presentazione della fanzine “Appello ai colibrì. Contro i nuovi OGM e l’agricoltura 4.0”, a cura del Collettivo Terra e libertà. A seguire discussione e aperitivo!
Nel “decreto siccità” approvato lo scorso maggio è stata inserita una norma che sdogana i nuovi OGM (in Italia ora chiamati “tecniche di evoluzione assistita”), permettendone la sperimentazione in campo aperto. La Commissione europea si muove nella stessa direzione. Di fronte al degrado ambientale che esse stesse hanno provocato, le tecnoscienze e l’industria continuano a pretendere di fornire false soluzioni, con progetti volti in realtà a mantenere i loro profitti a scapito dei territori e delle loro popolazioni, che subiranno i disastri “collaterali”.
Mentre la trasformazione dell’agricoltura in industria è una storiaantica, le biotecnologie e la digitalizzazione minacciano di sottrarre definitivamente alle persone il rapporto con la terra, il controllo sulla produzione dei propri mezzi di sussistenza e di conseguenza qualsiasi autonomia possibile, condannandoci a una dipendenza radicale.
Vorremmo che questa presentazione possa essere un’occasione di formazione autogestita su un tema quasi assente nel dibattito pubblico, e l’occasione per iniziare una discussione che veda unite le varie forme di devastazione che ci assediano e le persone che provano a resistervi.
In concomitanza, sarà esposta la mostra itinerante “Terra”, della fotografa Iskra Coronelli, uno sguardo attraverso l’Italia negli ultimi 10 anni, tra piccole storie e l’impatto di grandi opere sul territorio.
Ci sarà anche da sbecolare a offerta libera, per dare un supporto a chi ci ospita!
Vogliamo dare il nostro contributo sugli avvenimenti degli ultimi giorni intorno alla questione della cabinovia metropolitana di Trieste, progetto finanziato con i fondi del PNRR per la mobilità sostenibile che intende costruire un impianto a fune che colleghi la zona del Porto Vecchio in prossimità del centro città con l’altopiano del Carso in zona Opicina. Un’opera che, contrariamente al suo manto “green” costruito sulla retorica della sostenibilità e dell’innovazione, andrà ad impattare fortemente il territorio che attraversa e che, da tempo, vede una forte e variegata opposizione popolare. Le nostre riflessioni sono un punto di vista, una prospettiva tra le tante nel fronte dell’opposizione, che speriamo possano arricchire il dibattito e la mobilitazione in corso.
Ovovia: grande opera dannosa, inutile e costosa
Intorno al progetto dell’Ovovia aleggiano in città sentimenti ambigui, come se alla fine l’assurdità di questa opera inutile e dannosa bastasse di per sé a fermarne la realizzazione. Non è così. Le grandi opere – a maggior ragione quelle finanziate dal PNRR – hanno una funzione strategica, in termini generali sono ripristino delle catene di valore nel capitalismo in crisi. In soldoni, sono grossi affari di progettazione e costruzione (il finanziamento iniziale PNRR di 48 milioni è lievitato fino ad arrivare ad oltre 63 milioni, raggiunti con finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti e con fondi comunali) nella congiunzione tra pubblico e privato (nel nostro caso amministrazione comunale, governo, Unione Europea e la cordata dell’azienda Leitner) e poi, se non verrà fermato, anche di gestione dell’infrastruttura.
Come scrivono in altri luoghi, ma in situazioni per certi versi assimilabili, in fondo non è neppure necessario che l’opera si realizzi (anche se crediamo che, per come si stanno mettendo le cose, il rischio è reale, attuale e ormai pienamente dispiegato). “Ciò che appare evidente è invece come il “dispositivo ponte” [oppure “cabinovia”, o qualsiasi altra grande opera] serva a legittimare l’impianto ideologico sviluppista, una macchina di consenso e spesa intorno a qualcosa che probabilmente non esisterà mai. Un vero e proprio metodo, basato sulla “non fattibilità” di opere pubbliche e infrastrutture, in cui lungaggini burocratiche, dibattito politico drogato e permanere di grandi interessi che giustificano la necessità di apertura di cantieri diventano elementi funzionali a un processo che mira in realtà all’indirizzamento dei flussi finanziari, all’orientamento del consenso, alla gestione del territorio”.
Il punto, dunque, non è nemmeno solo l’opera di per sè, ma il piano complessivo di riorganizzazione di una fetta intera di città che, dall’enorme speculazione e riprogettazione di Porto Vecchio, passa per l’area di Barcola e risale sull’altopiano. La cabinovia è in questo senso un’infrastruttura strategica. Ecco cosa va fermato: non (solo) il progetto di una cabinovia, ma il processo complessivo di devastazione del territorio e accumulazione economica – non equamente distribuita – che si porta dietro.
In questa cornice, che alle volte sfugge per i suoi contorni così estesi e sfumati, abbiamo visto negli ultimi giorni muoversi le prime pedine sulla scacchiera. Sono iniziati i primi interventi propedeutici alla definizione del progetto: dopo i sopralluoghi della scorsa primavera ai fini degli espropri dei terreni, i rilievi sul territorio (come gli scavi effettuati in Via Pertsch a giugno e le trivellazioni ad Opicina), i movimenti di tecnici nelle strade limitrofe, ora arrivano le prime trivellazioni impattanti nella zona di strada del Friuli.
Molti hanno fatto notare che “il progetto di fattibilità tecnica ed economica approvato dal Comune nel dicembre 2022 e messo a gara, presenta vistose lacune sotto diversi profili: ambientale, geologico, trasportistico, finanziario, urbanistico”. Nonostante queste lacune, dal momento in cui è stato elaborato un progetto ‘preliminare’ per la realizzazione di una cabinovia metropolitana, si è messo in moto un processo che non si fermerà da solo.
Le prime trivellazioni
Cosa succede quindi? Accade che sfruttando un’ordinanza sulla manutenzione del verde pubblico il Comune invia in Strada del Friuli una ditta che abbatte un ciliegio, il primo albero dei tanti che è previsto cadano per spianare la strada all’ecomostro. La vigilanza popolare è all’erta: possibile che avvenga un sacrosanto intervento di manutenzione e sfalcio del verde – a detta dei residenti, intervento sostanzialmente non pervenuto negli ultimi 15 anni – con la presenza di ben 5 tecnici comunali a dirigere i lavori, in un punto per giunta toccato dal progetto della cabinovia? Quello che apparentemente sembrava un normale intervento di manutenzione era un piccolo ma significativo moto nell’ingranaggio della megamacchina che si è messa in movimento.
Il gioco viene presto svelato. Dopo il pretestuoso intervento di rimozione di un albero, compaiono i primi divieti di sosta per “esecuzione di sondaggi funzionali al progetto della cabinovia”, riguardanti le aree di Via del Perarolo, Strada del Friuli (nei pressi del civico 118), Via Braidotti e Via del Calcare (intersezione Via Carsia). La ditta esecutrice è la Tecno Geologia Perforazioni di Brescia.
Il lunedì successivo, quindi, una convocazione informale di residenti e solidali si dà appuntamento in zona, per monitorare i movimenti e verificare quanto accade. Una prima “utilità” decisiva della mobilitazione è questa: il presidio e il controllo popolare permette di leggere e interpretare i primi passi della grande opera, contro l’opacità con cui si muovono istituzioni, autorità e imprese coinvolte. Non basta, insomma, affermare con sicurezza che il progetto è “preliminare”, che ci sono pareri contrari, che i ricorsi al TAR sono ancora pendenti. Come dimostrano centinaia di casi in altri luoghi e altre situazioni, progetti di questo tipo si muovono come macchine schiacciasassi sul territorio, strisciando di volta in volta tra ostacoli burocratici ed iter autorizzativi sullo slancio del loro avvio e dell’inerzia che li tiene in moto. Il business è la priorità.
Il meccanismo va inceppato sul piano pratico. Il lunedì ci pensa un nubifragio, che si abbatte su Trieste e sulle zone interessate dai primi sondaggi, mostrandone la fragilità idrogeologica: smottamenti, alberi abbattuti e allagamenti sono l’espressione feroce del fronte della natura, che dobbiamo saper ascoltare.
È sorda invece la macchina. Il giorno successivo, arriva la trivella in Strada del Friuli. Viene parcheggiata a bordo strada, qualche decina di metri sotto al punto boschivo dove dovrebbe sorgere il pilone W6, insieme ad una cisterna con l’acqua di raffreddamento per la perforazione (di metri e metri) prevista dal carotaggio. Iniziano quindi i primi lavori.
Per tutta la giornata la presenza di un presidio spontaneo segue i lavori, interroga gli operai coinvolti, mette in discussione la legittimità dell’intervento, mostra il dissenso verso l’opera. È chiaro a tutti – a chi presidia, anche sotto la pioggia; ai tanti, di passaggio, che a centinaia mostrano solidarietà – che quei sondaggi non metteranno mai in discussione la realizzazione della cabinovia metropolitana del PNRR, perché sono appunto “funzionali” al suo compimento.
La mobilitazione: il fronte dei boschi, il presidio popolare, il sabotaggio
Il fronte dei boschi non resta silente, avanza, e proprio accanto al ciliegio, la prima vittima del cemento che avanza, un tubo che abbevera la macchina perforatrice ne rimane tranciato. È violenza, questa? Vedendo la trivella che perfora il terreno, l’arroganza comunale, l’impatto devastante della grande opera, sembra più che altro un atto di resistenza legittima, un piccolo granello (si parla di un tubo dell’acqua tipo quello che avete in giardino) per inceppare appena un po’ il processo. È anche un modo per darsi tempo, rallentare e aprire spazi di discussione di fronte all’opera che avanza schiacciando tutto quello che incontra.
I giornali danno subito risalto alla notizia: il sabotaggio. Contrariamente al can can mediatico, agli scettici e ai politici, ci sembra del tutto superfluo interrogarsi sulla mano che ha compiuto il gesto. Un sabotaggio, come un blocco popolare, è una risposta possibile, e in alcuni casi necessaria, alla violenza istituzionale, alla devastazione del territorio, ai progetti del capitale pubblico-privato. Non si tratta nemmeno di dividere il fronte che si oppone all’opera: ognuno e ognuna si muove con i mezzi che ha disposizione, perché la partita non si gioca nel teatrino della politica e delle legittime posizioni di interesse, ma sul territorio che si abita, in carne ed ossa, senza mediazione. Se lo mettano in testa i politicanti che dal loro salotto fanno la morale, nella speranza di capitalizzare qualche consenso contro il doge demente (sì, parliamo proprio del sindaco alla prese in questi giorni con il complotto per indebolire il governo della sua amica Meloni). Qui parlano e agiscono le persone che vivono sul campo, che lo attraversano ogni giorno per andare a lavorare, che lo difendono e lo curano, che lo custodiscono. Giocano un’altra partita quelli che accumulano e valorizzano capitale – che sia economico, di potere, di consenso politico – che di quel territorio si fa beffe. Semplicemente una risorsa da sfruttare in un modo o nell’altro, per lorsignori. Per noi è altro: è vita, comunità, territorio liberato. In questi giorni, anche semplicemente un riparo fresco dalle torride giornate estive, perché il bosco a differenza del cemento mantiene un ambiente vivibile.
Crediamo che questo sia un buon esempio del modo in cui vada affrontata una lotta come quella contro l’ovovia: attraverso tutte quelle modalità che chi si sente aggredita dal progetto ha tempo e voglia di portare avanti. In quest’ottica apprezziamo molto il lavoro informativo e la lotta legale del Comitato No Ovovia. Ma visti i giochetti di imprenditori e Comune, che con una semplice deroga superano vincoli come quello di Natura 2000, non sembra sensato pensare che i procedimenti della giustizia possano da soli arrestare il progetto in così breve tempo.
La storia insegna: progetti faraonici come quello dell’ovovia, in cui si concentrano molti degli elementi del capitalismo odierno (trasferimento massiccio di soldi pubblici nel privato, sfruttamento di ogni pezzo di terra per il profitto di poche aziende, sfacciato greenwashing, autoritarismo decisionale travestito di processo democratico), vanno combattuti, per la loro complessità, da ogni fronte possibile. Un agire verso una stessa direzione che necessita del rispetto reciproco di tutte le modalità di lotta.
Un’altra cosa che vale la pena ricordare, in questi tempi di smobilitazione strutturale, è che agire dal basso serve a qualcosa. Non è solo un modo di esprimersi, di vivere, ma anche un modo di cambiare veramente ciò che ci sta attorno. Pensiamo alla lotta No TAV, che da più di venticinque anni riesce a difendere il proprio territorio mettendo sotto scacco uno dei progetti più distruttivi e costosi della storia italiana recente. Ma pensiamo anche alle lotte locali, quelle che spesso passano quasi inosservate, ma che hanno senz’altro effetti nella gestione del nostro territorio.
Il presidio spontaneo si convoca e si riconvoca in continuazione, il martedì e il mercoledì successivi, di volta in volta scegliendo come agire. Con la semplice presenza, disturbando i lavori, denunciando le irregolarità, facendo muro, chiacchierando con gli operai, alzandogli la voce (siamo umani, non carte bollate). La risposta istituzionale è chiara: già dal martedì aumenta la presenza delle forze dell’ordine a sorveglianza dei lavori, a difesa degli interessi di una manciata di tecnici, politici e capitali contro la volontà popolare. La trivella viene transennata, nasce il primo fortino dell’opera, la sua piccola prima trincea sul campo. Dura poco, perché – contro il tentativo iniziale di muoversi in sordina e il successivo, a cose fatte, di farne una questione di ordine pubblico – il fronte dei boschi e dei resistenti la spunta.
Dopo tre giorni di lavori a scatti, gli operai comunicano che non ci sono le condizioni per proseguire i sondaggi. Hanno bucato per 7/8 metri il terreno, senza arrivare ai 10 che si erano prefissati, ma preferiscono caricare macchinari e bagagli e ripartire. I giornali ne parlano? In alcun modo, tacciono. Perché ormai è chiaro che la notiziabilità di questo grande affare passa per i faraonici annunci di un grande cabinovia metropolitana per la mobilità (dei turisti, in realtà, ma non si può dire apertamente perché altrimenti cadrebbe la ragione del finanziamento del PNRR), sogno di un capitalismo delle grandi opere che fa finta che la natura non esista se non come risorsa da spremere. Molto meno interessa ai media la contestazione reale, quella che avviene fuori dai social e che ha effetti materiali.
Ecco un secondo punto decisivo: dopo la fase degli annunci, delle carte, dei progetti, ora la partita si cala nella realtà e da lì deve venire la risposta.
Le trivelle ripartono, la mobilitazione continua
Le trivelle sono ripartite, ma il fronte dei boschi continua a vivere, a sorvegliare il Bovedo, le strade lì attorno, la casa comune che abita, contro lo sfruttamento e l’abuso di chi vorrebbe governarlo, sfruttarlo e valorizzarlo con la forza.
“Invitiamo tutte e tutti a tenere gli occhi aperti, a partecipare in questa lotta attivamente. Siamo responsabili per gli spazi che abitiamo.”
Con queste parole, un gruppo di cittadine, residenti e solidali della zona direttamente colpita dal mega progetto rilanciava la mobilitazione dopo la prima occasione in cui ci si è opposte fisicamente alla costruzione dell’ovovia. Uno “stare in piedi” – in linea con le tradizioni della disobbedienza civile – che ha rallentato i lavori di trivellamento propedeutici all’impiantamento dei famigerati piloni. Una piccolissima – ma comunque rilevante – vittoria, complici le forte pioggie e pure i piccoli sabotaggi che qualcuno ha portato a termine.
Teniamone conto: là – tra i boschi, le strade e i sentieri – c’è un mondo intero che si ribella.
Contro la devastazione dei territori e il profitto dei pochi (in questo caso le multinazionali del petrolio e del fossile), la montagna si ribella!
Nel weekend si è tenuta a Paluzza una due giorni di iniziative e mobilitazione contro i piani di allargamento della SIOT.
Nel comune carnico, come anche a Dolina, la SIOT – non paga del mastodontico progetto dell’oleodotto transalpino – vuole imporre sulla testa delle popolazioni delle centrali di cogenerazione a gas. Tutto ciò, spacciandole per misure di abbattimento delle emissioni ed efficientamento energetico (a metano, bella sta storiella del green!). La solita operazione per incrementare i profitti e prendersi un giorno gli incentivi pubblici, che va ad estendere un progetto già devastante come l’oleodotto transalpino.
Resistere alla devastazione dei territori è il primo passo per lottare per la giustizia sociale e climatica. L’unico oleodotto che ci piace è quello che fa il botto!
Gli abitanti di Vrtojba (una città della regione di Goriška) da diversi anni si battono attivamente per la chiusura della base di asfaltatura locale, perché riduce la loro qualità di vita. I residenti non hanno nulla da guadagnare dalla base stessa, a parte gli effetti negativi sulla loro salute.
La base di asfaltatura è particolarmente problematica perché si trova proprio accanto alla città, inquinando gran parte del villaggio. I residenti locali chiedono quindi, giustamente, che la base venga chiusa e spostata altrove. Inizialmente hanno cercato di ottenere questo risultato attraverso i canali istituzionali, ma nonostante le promesse dei ministeri, dell’ispettorato e di altri soggetti politici, la questione non è andata da nessuna parte. Forse anche perché il proprietario della base di asfalto non è uno qualunque, ma la Kolektor Koling, una delle aziende più influenti in Slovenia. Mentre i residenti hanno deciso di adire le vie legali per esercitare ulteriori pressioni e informare l’opinione pubblica sugli sviluppi inaccettabili di Vrtojba, continua anche la mobilitazione: sabato 3 maggio si terrà una manifestazione per la chiusura della base di asfalto di Vrtojba, sul prato accanto alla base di asfalto.
Invitiamo tutti ad unirsi quindi alla manifestazione di Mladi za podnebno pravičnost (Youth for Climate Justice) e dei residenti locali, per dare supporto a questa lotta contro la devastazione del territorio!
Negli ultimi 30 anni il turismo mondiale da crociere è cresciuto esponenzialmente e costantemente: le 18 maggiori corporation oggi operanti hanno incrementato il loro traffico passeggeri di più di 25 volte rispetto agli anni ‘90 e prevedono un ulteriore incremento nel 2022-2023, con il post- pandemia.
Le navi più grandi possono ospitare più di 5000 passeggeri e 1000 membri dell’equipaggio, superano i 300m di lunghezza e sono definibili come vere e proprie città galleggianti. Al loro interno i passeggeri possono trovare: piscine, teatri, cinema ristoranti, negozi, spa, campi sportivi, lavanderie, ambulatori e persino zone deputate alla detenzione e obitori. Una settimana in crociera tutto incluso costa anche solo 400 euro, rendendole accessibili ad un’ampia fetta della popolazione. Negli ultimi 5 anni Trieste ha visto rapidamente incrementare il traffico crocieristico nel suo porto, raggiungendo nel 2019 i 177.400 passeggeri (diventando così in un solo anno il 7° porto crocieristico italiano, dal 10° che era), aumentati poi fino ai 238.557 nel 2021 e fino ai 424.531 nel 2022 (per 183 toccate). Secondo le previsioni della società Rispote Turismo, questi numeri rimarranno stabili nel 2023.
Un aumento consistente, quello già verificatosi, del traffico navale e passeggeri, sostenuto e auspicato da amministrazione, autorità portuale e confcommercio che lo descrivono come un generatore di posti di lavoro, investimenti e turismo, definendolo come una possibilità di rilancio dell’economia triestina.
Questa crescita esponenziale di presenze obbliga ad una seria e tempestiva riflessione sugli innumerevoli problemi causati dalle grandi navi alla città e all’ambiente, per non lasciarsi ingannare da quelli che sembrano facili profitti ed introiti garantiti, dimenticandosi in maniera più o meno consapevole degli effetti a lungo termine (e quindi dei costi) che questo settore comporta.
Negli ultimi 20 anni studi e report hanno sempre di più evidenziato le diverse criticità e falsi miti dell’industria crocieristica, sottolineandone sia l’elevato impatto ambientale sia le trasformazioni che causa al tessuto cittadino. Sottolineiamo qui una serie di punti critici a riguardo:
Proliferazione nei centri storici di attrazioni per turisti (air BnB, bar, ristoranti e negozi), allo stesso tempo che essi vengono svuotati di servizi per i residenti.
Il traffico in città aumenta a causa dei pullman usati per muovere le migliaia di persone imbarcate.
La città deve sobbarcarsi lo smaltimento dei rifiuti delle grandi navi, i rifornimenti di acqua e di generi alimentari. In alcuni casi si rende inoltre necessario realizzare dei lavori per adeguare le banchine all’arrivo di navi passeggeri così grandi.
L’arrivo delle grandi navi genera sì lavoro ma precario, sottopagato e altamente stagionale.
Proprio mentre tutti i Paesi europei si allontanano dal mercato crocieristico, l’Italia e Trieste in primis continuano invece ad investire in questo settore. Trieste e la sua amministrazione puntano sulle grandi navi come motore di sviluppo del turismo e dell’economia della città, senza dare risposte o formulare piani che considerino le perplessità espresse. Ciò riflette il generale disinteresse della giunta Dipiazza per ambiente e territorio, salute dei cittadini e sviluppo socio-economico della città.
L’assenza di una valutazione obbiettiva e pubblica di quali siano i costi legati alle grandi navi ed al turismo di massa è preoccupante, e se è vero che un’analisi puntuale su costi di gestione, impatto sul mercato del lavoro e sui prezzi di alimenti e case in città è lunga e complessa, quella sugli impatti ambientali e sulla salute dovrebbe essere, per un’amministrazione, più semplice, in quanto non solo esistono innumerevoli studi consultabili, ma anche enti preposti al controllo di qualità di aria e acqua che dovrebbero essere coinvolti.
Ci troviamo davanti un’amministrazione miope che punta allo specchietto per le allodole del numero di turisti portati in città, ma disinteressata alle necessità di cittadini e cittadine. La giunta Dipiazza continua a non affrontare le domande che da più di vent’anni vengono poste in tutto il mondo rispetto alle grandi navi: Quale impatto ambientale hanno (e conseguentemente quale impatto sulla salute dei cittadini)? Che posti di lavoro creano e quale impatto socio-economico determinano sulle città di destinazione?
Le 18 mega Corporations oggi operanti
A livello globale il settore crocieristico conta 18 Corporation principali, che armano e gestiscono le circa 50 compagnie crocieristiche che accorpano e le loro navi. Nel porto di Trieste troviamo imbarcazioni di 8 grandi compagnie (gestite da 3 Corporation) e 3 di società medio-piccole.
Come già espresso, uno dei maggiori problemi sollevati dall’esistenza stessa delle crociere è l’impatto ambientale e sulla salute da esse generato. Per cercare di dare una valutazione obbiettiva e facilmente comprensibile dell’inquinamento prodotto dalle navi, una società statunitense di protezione ambientale redige ogni anno delle pagelle per le maggiori Corporation, assegnando a ciascuna una valutazione media fatta in base a quattro criteri principali:
Trattamento delle acque nere e grigie: valuta se le compagnie abbiano installato e pubblicato i dati relativi all’uso di sistemi di trattamento delle acque reflue ad alta efficienza, piuttosto che scaricare in mare acque poco trattate.
Riduzione dell’inquinamento atmosferico: valuta se le navi siano state ri-equipaggiate per sfruttare le banchine elettrificate nei porti dove sono disponibili, usino il carburante a minor quantitativo di zolfo, o entrambe.
Rispetto delle normative sulla qualità dell’acqua: valuta quanto le compagnie crocieristiche abbiano violato tra il 2010 e il 2021 i nuovi standard, implementati in Alaska per una miglior protezione delle coste. Le compagnie sono state valutate con l’insufficienza se utilizzanti i sistemi di scrubber (ECGS) in quanto fonte di inquinamento tossico per le acque.
Trasparenza nel fornire informazione: denota quali compagnie abbiano risposto alle domande dell’agenzia riguardo le loro pratiche ambientali, e quali no.
Nel porto di Trieste attraccano navi appartenenti alle linee:
MSC Cruises
Costa
Carnival Cruise Line
Oceania Cruises
NCL Norwegian
Royal Caribbean
Posto che i dati necessari alle valutazioni provengo da porti di tutto il mondo, spicca come le valutazioni siano generalmente molto basse. In particolare, sono preoccupanti le valutazioni sugli sforzi fatti per ridurre la quantità di inquinamento atmosferico prodotto dalle compagnie operanti a Trieste: 3 insufficienze gravi e 3 appena sufficienti. Qui le banchine non sono elettrificate, le navi tengono quindi i motori accesi quando attraccate, producendo notevoli quantità di gas di scarico. L’elettrificazione delle banchine non è poi una soluzione necessariamente rispettosa di ambiente e salute, né poco costosa. Vorrebbe dire predisporre l’infrastruttura necessaria a portare notevoli quantità di energia elettrica fino al pieno centro delle città, dovendo quindi scavare e installare chilometri di cavi e strutture di controllo. Non solo, Il fabbisogno di energia elettrica dell’intera città di Trieste è di 150-160 Mva. Giovanni Piccoli, direttore reti AcegasApsAmga, ha affermato che per fornire le sole grandi navi di tutta l’energia loro necessaria Trieste dovrebbe incrementare di 80 Mva la sua disponibilità. È un incremento del 50%. Da dove proverrebbe l’energia per alimentare il sistema? Da quale fonte si ricaverebbe l’elettricità? Chi ammortizzerebbe i costi di installazione, manutenzione e mantenimento dell’opera?
Inquinanti di aria e acqua risultanti dalla presenza di grandi navi
Ogni nave produce inquinanti sia atmosferici che impattanti l’ambiente acquatico circostante.
Come evidenziato dalla figura, tra le principali emissioni in atmosfera troviamo i tipici inquinanti prodotti da ogni motore a combustione: gas serra ed altri inquinanti dell’aria tra cui: ossidi di azoto (NOx), di zolfo (SOx) e altro particolato microscopico (PM) tra cui particelle di carbonio (black carbon).
Per quanto riguarda invece l’ambiente circostante, il mare, gli inquinanti derivano da scarichi di acque reflue (grigie e nere), residui solidi, apporti di composti chimici dannosi (tra cui quelli utilizzati per le vernici antifoul), trasporto di organismi provenienti da altri ecosistemi (specie potenzialmente invasive), olii ed idrocarburi presenti nelle sentine.
Le navi da crociera non fanno eccezione nel produrre tutti gli elementi dannosi sopra elencati. Alcuni di questi vengono anzi emessi in percentuali molto più consistenti dalle grandi navi, di quanto non avvenga ad opera delle più grandi porta-container. In particolare: tutti gli inquinanti prodotti dai motori, che rimangono in funzione anche mentre attraccate in porto, quelli prodotti dalla vita a bordo di migliaia di persone e quelli derivanti dalla presenza di centinaia di navi in più nelle acque del Golfo.
Inquinanti di particolare interesse per la salute umana o dell’ambiente, derivati dalla presenza di grandi navi
Inquinamentoatmosferico
La tabella mostra come i maggiori problemi derivanti dalla presenza delle navi in porto siano lo scarico di ossidi di azoto e zolfo così come di altro particolato sottile. Questo è determinato dal continuo funzionamento dei motori diesel, che devono mantenere accese tutte le apparecchiature, frigoriferi, condizionatori e macchinari necessari al funzionamento della nave, anche quando questa è attraccata in porto.
Il particolato sottile è la controindicazione da grande nave con effetto maggiore e diretto sulla salute umana. A seconda del diametro le particelle vanno infatti a depositarsi più o meno in profondità nell’apparato respiratorio. É stato osservato come anche un esposizione limitata (1-2-giorni) ad elevate concentrazioni di PM10 (ossidi di azoto) e PM2,5 (ossidi di zolfo) possa causare bronchiti, asma e cambiamenti della funzione respiratoria. Un’esposizione prolungata, anche a basse concentrazioni, può invece provocare disturbi come tosse, diminuzione della capacità respiratoria, problemi al sistema cardiovascolare fino ad arrivare a causare tumori e complicazioni gravi soprattutto in soggetti asmatici, anziani o bambini sotto i 12 anni.
Analisi della qualità dell’aria effettuate nei maggiori porti europei dimostrano come le quantità di ossidi di azoto (NOx) e di zolfo (SOx) emesse nei porti crocieristici siano, rispetto alle emissioni del traffico veicolare cittadino, come minimo pari nel caso del primo; sempre di gran lunga superiori nel caso del secondo.
Gli ossidi di azoto sono quelli le cui emissioni sono più contenute, arrivando solo in città medio piccole a superare quelle del traffico.
Gli ossidi di zolfo sono invece emessi a concentrazioni molto più elevate, anche dopo l’entrata in vigore della normativa 2020, che richiede l’uso di combustibile a minor concentrazione di zolfo. Dati del 2017 evidenziano come 203 navi da crociera da sole abbiano emesso 20 volte più ossidi di zolfo lungo le coste europee di quanto non abbiano fatto i più di 216 milioni di autoveicoli presenti in Unione Europea.
Anche considerando che i dati 2022 rileveranno una quantità inferiore di SOx emessi, grazie all’entrata in vigore di norme più stringenti, è evidente come l’inquinamento prodotto da questi mostri del mare rimanga estremamente superiore a quello già caratterizzante le nostre città. Essendo poi gli ossidi zolfo un PM2,5 sono anche quelli con rischi maggiori per la salute.
Calcoli effettuati con dati forniti dall’agenzia europea dei trasporti, dimostrano come per Trieste le emissioni di NOx delle 224 crociere arrivate nella stagione 2022 superino di 3 volte quelle del traffico veicolare mentre quelle di SOx di 45,9 volte.
Anche non considerando la salute delle persone e dell’ambiente dovrebbero preoccupare i costi di gestione della sanità per una città inevitabilmente sempre più ammalata.
Inquinantimarini
La stessa Agenzia Europea per l’Ambiente definisce quella della contaminazione dei mari europei “una sfida di larga scala”, scrivendo che “servono ulteriori impegni nei confronti della riduzione degli scarichi o inquinamento accidentale di ogni tipo (incluso quello proveniente da navi) per ottenere un ambiente marino pulito e non tossico.”
Negli ultimi anni la tutela del mare e degli oceani è finalmente entrata nell’agenda politica, ne è stata segnalata la vulnerabilità e l’indispensabilità per la vita sul pianeta e sono state firmate alcune convenzioni di tutela degli ecosistemi marini. Il mare, oltre ad essere fonte cibo e svago è fondamentale regolatore del clima, delle correnti atmosferiche e temperature, produce da solo più del 50% dell’ossigeno che respiriamo ed è ecosistema complesso regolato da relazioni in molti casi ancora sconosciute.
Il Golfo di Trieste è il più a nord del Mediterraneo, è grande appena 550 km2 ed è profondo in media 16-18m uno specchio d’acqua minuscolo. É inoltre un ambiente già sottoposto a forti pressioni antropiche, ospitando tra gli altri i porti di Trieste e Capodistria, i cantieri navali di Monfalcone, la sua cartiera, la foce del fiume Isonzo e fino a poco tempo fa la ferriera di Trieste. Tutte queste attività mettono da decenni sotto pressione l’equilibrio dell’ecosistema, che già mostra una biodiversità in costante declino dagli anni ‘60 e ora anche forti segni di tropicalizzazione.
La presenza in rapida crescita delle grandi navi nel golfo non fa altro che esacerbare i problemi già causati da petroliere e porta container, attività industriali, di pesca, allevamento ed agricole, aggiungendone di nuovi non tipici delle navi commerciali. Queste città galleggianti imbarcano infatti una media di 3000 persone fra ospiti e membri dell’equipaggio, oltre a cabine e servizi igienici offrono ristoranti, piscine, lavanderie, saune e spa. Tutti questi comfort producono inquinanti come ogni ogni centro abitato: acque grigie e nere, immondizia e residui vari provenienti da detergenti, cibi, bevande eccetera, non emessi dalle navi commerciali.
I sistemi di depurazione e smaltimento presenti sulle crociere non possono garantire un filtraggio pari a quelli di terraferma. Vengono così introdotti nell’ambiente marino batteri, virus, nitrati ed altri elementi, materiali chimici tossici, diossina, micro e nano plastiche. Inoltre, nonostante le navi crociera rappresentino solo l’un percento del totale dell’industria navale mondiale, si stima che da sole producano fino ad un quarto di tutto il rifiuto, solo una parte del quale arriva ad essere smaltito in terra ferma.
In un Golfo poco profondo come quello di Trieste anche il movimento stesso dell’acqua, causato dalle turbine dei motori, può costituire un impatto considerevole. Studi svolti nei Caraibi hanno infatti dimostrato come i fondali situati a profondità inferiori ai 20 metri vengano perturbati dal passaggio delle navi, generando sospensione del sedimento e quindi aumento della torbidità dell’acqua e rimessa in circolo dei depositi di fondale (inclusi i metalli pesanti), arrivando anche allo sradicamento di piante sottomarine quando presenti.
Lasciano infine grosse perplessità anche i nuovi sistemi ECGS, sistemi per la depurazione del gas di scarico atti a ridurre la quantità di ossidi di zolfo rilasciata in atmosfera. Questi sistemi filtrano i composti dello zolfo dal gas di scarico utilizzando acqua di mare, che viene poi scaricata in mare o, nel migliore dei casi, ri-filtrata per isolare i composti di zolfo in essa presenti, generando un rifiuto tossico che viene poi smaltito a terra. Nel rapporto europeo sull’impatto ambientale del trasporto marittimo si indica come il 77% delle acque scaricate da navi consista proprio nelle acque di scarico dei sistemi a ECGS a circuito aperto, queste sono cariche di metalli pesanti e idrocarburi aromatici, pericolosi per l’ambiente e gli organismi marini.
ALCUNI DATI, INFORMAZIONI E SPIEGAZIONI AGGIUNTIVE
Particelle di carbonio (Black Carbon)
Con la combustione vengono rilasciate nell’aria minuscole particelle di carbonio, classificate come PM2,5 sono particelle estremamente volatili, pericolose per la salute e per l’ambiente.
Così come gli ossidi di Zolfo esse entrano facilmente nel sistema respiratorio, portando allo sviluppo o all’aggravarsi di malattie cardiovascolari, infarti, attacchi cardiaci e malattie respiratorie croniche come asma o bronchiti.
Disperse nell’ambiente inoltre sono le seconde maggiori contributrici al riscaldamento globale. Il carbonio è infatti estremamente efficiente nell’assorbire luce e calore (460-1500 volte più della CO2). Quando sospeso nell’atmosfera converte la luce del sole in calore, quando si deposita a terra è invece particolarmente problematico se depositato su neve o ghiacciai. In entrambi i casi il risultato è un innalzamento delle temperature, potenzialmente distruttivo soprattutto nelle regioni artiche.
Le particelle di carbonio rimangono sospese per relativamente poco tempo, prima di ricadere al suolo (e non essere così direttamente più responsabili di problemi cardiorespiratori): 4-12 giorni. Esse derivano per la maggior parte da combustibile ad uso domestico (51%) e vista la velocità di decadimento, negli anni sono state disposte normative sempre più stringenti per limitare l’uso di caminetti, stufe a legna e stufe a carbone o kerosene nelle città, proprio per tenere basso il livello di particelle di carbonio sospeso.
Trieste, che come tutte le città, ha un regolamento restrittivo nell’uso del combustibile domestico, per limitare l’inquinamento atmosferico da particelle di carbonio, non solo vede i suoi sforzi vanificati dalla costante presenza delle grandi navi, che continuano ad immettere carbonio in atmosfera, ma lo fa presentandole come una buona idea per la valorizzazione del proprio patrimonio artistico culturale ed ambientale.
Vernici Antifoul Ogni nave ha una verniciatura biocida che serve a limitare la crescita di organismi sullo scafo. Fino al 2008 le vernici antifouling contenevano elevate concentrazioni di TBT (tributilstagno), composto che si è scoperto avere gravi impatti sull’ambiente e conseguentemente se ne è vietato l’uso.
Oggi si usano per lo più composti a base di rame, meno tossici del TBT ma non per questo inoffensivi. Essi sono tossici anche per gli organismi che non ne sono target, possono causare inibizione della fotosintesi (in piante e alghe), mutazioni fino ad alterazione delle abilità riproduttive.
Gli effetti dello scioglimento e diffusione del rame in mare sono particolarmente gravi in bacini piccoli a lento ricambio d’acqua, dove l’accumulazione è più facile in quanto il tempo di esposizione degli organismi al minerale è più lungo. Rimanendo in sospensione il rame entra anche nella catena alimentare. Esso entra prima nel plankton (organismi animali e vegetali marini, per la stragrande maggioranza invisibili ad occhio nudo) che è base dell’alimentazione di molti organismi, come spugne e molluschi, che vengono a loro volta mangiati da animali più grandi come pesci e crostacei. Tramite questo processo di bioaccumulo le tossine arrivano dai mari al piatto.
Per quanto quello delle vernici antifouling sia un problema comune a tutte le imbarcazioni, le grandi navi acuiscono l’inquinamento da antifouling vicino alla costa, in quanto solitamente non attraccano in porti commerciali, ma a banchine più prossime ai centri abitati, e quindi a spiagge, mitilicolture ed aree marine protette.
Normativa 2020 Dal primo gennaio 2020 sono entrate in vigore le nuove norme della Convenzione Internazionale MARPOL (Annesso VI) dell’International Maritime Organization (IMO), ossia l’Agenzia Marittima delle Nazioni Unite, che obbligano ad utilizzare a livello mondiale carburanti navali con un contenuto di zolfo inferiore allo 0,5 % m/m (massa per massa). Lo scopo è quello di migliorare la qualità dell’aria e diminuire drasticamente l’inquinamento ambientale prodotto dalle navi commerciali che utilizzavano fino ad allora combustibile con tenore di zolfo al 3,5%. La normativa si applica a tutte le navi battenti bandiera, o che navigano entro la giurisdizione, di uno Stato parte della Convenzione MARPOL.
La normativa permette l’utilizzo di carburanti a tenore di zolfo superiore al 0,5% purché affiancati dall’uso di uno scrubber, ovvero un sistema di filtraggio che riduca le emissioni ad un livello pari a quello di navi che utilizzano carburanti a basso contenuto di zolfo.
La tendenza riscontrata per le navi con consumi di carburante più elevati (traghetti e crociere) è quella di installare sistemi di scrubber per continuare ad usare i più economici carburanti ad alto tenore di zolfo. Gli scrubber usano acqua di mari pompata attraverso specifici filtri per ripulire i gas di scarico, queste acque vengono poi rilasciate nell’ambiente circostante. Sono considerate acque inquinanti ed in alcuni stati parte della convenzione MARPOL ne è vietato lo scarico in porto o altre acqaue di pertinenza (es: Cina, Singapore, Alaska).
Calcoli relativi alle quantità di NOx e SOx emessi a Trieste Il dato su Trieste è una stima di quanti SOx e NOx siano stati prodotti nel 2022, è stato calcolato in base ai dati disponibili su Venezia (2017), aggiustandolo rispetto al numero di veicoli presenti a Trieste ed il numero di navi arrivato.
Una nave produce in media: 404,7 Kg di SOx e 8828,48 kg di NOx
Un’auto produce in media: 1,4 Kg di SOx e 3,9 Kg di NOx
I sistemi EGCS o scrubber
Dopo l’entrata in vigore del IMO Global Sulphur Cap il 1° gennaio 2020 gli armatori hanno dovuto o iniziare ad utilizzare carburanti con tenore di zolfo inferiore al 0,5% (prima fissato al 3%) o dotare le proprie navi di scrubber.
Gli scrubber o Exhaust Gas Cleaning Systems (ECGS) sono elementi cilindrici posizionati all’interno del camino di scarico, così che i gas passino attraverso una soluzione di acqua nebulizzata prima di essere espulsi. Gli ossidi di zolfo vengono catturati tramite 2 reazioni: una con l’acqua stessa che li dissolve, l’altra grazie alla reazione fra gli ossidi stessi e altre particelle alcaline (basiche) presenti naturalmente nell’acqua.
L’acqua usata negli scrubber si carica quindi di metalli pesanti (derivanti dall’ossidazione dello zolfo) e si acidifica, deve quindi essere a sua volta filtrata per catturare il più possibile dei metalli presenti e per riportarla ad un pH leggermente alcalino prima di poter essere scaricata.
Esistono diversi tipi di scrubber, adatti ad acque a salinità e temperature diverse, una differenza macroscopica nei diversi sistemi è tra quelli a circuito aperto (l’acqua di risulta è scaricata direttamente in mare) e chiuso (il rifiuto è smaltito a terra). Alcuni porti e nazioni nel mondo vietano in toto lo scarico delle acque provenienti dagli scrubber lungo le loro coste, per garantirne la protezione.
Le grandi navi sono, rispetto alle altre grandi imbarcazioni, tra le maggiori consumatrici di carburante e dopo il 2020 hanno per lo più installato sistemi di scrubber, piuttosto che utilizzare carburanti a minor concentrazione di zolfo (e più costosi). Il risultato è che la maggior parte delle acque scaricate dalle navi è oggi rappresentato da acque ricche di residui di questo filtraggio.
Inutile riaffermare come metalli pesanti e acque ricche di residui di gas di scarico siano dannose per l’ambiente. I sistemi scrubber offrono la possibilità di continuare ad usare carburanti altamente inquinanti che, per quanto ben funzionanti e rispettanti le normative, non rilasceranno mai acqua pulita, e vanno semplicemente a spostare il problema dell’inquinamento da zolfo dall’atmosfera al mare.
Primo Maggio, ore 9 campo san Giacomo, Spezzone Sociale, dopo il corteo festa in Piazza Libertà!
Siamo lavoratori e lavoratrici schiacciate dal carovita che continuano a vedere i propri salari immutati mentre l’inflazione galoppa tra il 7 e il 10% ormai da mesi. I rincari di materie prime e alimenti vengono continuamente scaricati su cittadini e cittadine, mentre il governo smantella i già scarsi ammortizzatori sociali e la politica tutta continua a glissare sull’eterna crescita del precariato e sull’uso di contratti a minima (se esistente) tutela. Anzi, la flessibilità del lavoro viene sbandierata come desiderabile e competitiva, meglio ancora se abbinata con la disponibilità di lavoratori e lavoratrici ad essere sempre contattabili, dispost* a lavorare ore extra, “chiaramente” gratis. La crisi energetica globale e i conflitti bellici vengono discusse con l’unico obiettivo di preservare il profitto: poco importa dei costi in temini ambientali e di vite umane!
Nel sostenere le rivendicazioni tradizionali sul lavoro (aumento degli stipendi, maggiore stabilità, riduzione della giornata lavorativa, conciliazione vita-lavoro), riteniamo di doverle integrare in una visione d’insieme: la crisi climatica e delle materie prime devono essere affrontate attraverso un radicale cambio della società e dei sistemi di produzione e consumo.
Già nel piccolo della nostra città, vediamo come politica ed affaristi rincorrano solo il profitto ad ogni costo. Grandi navi ed ovovia sono sbandierati dall’amministrazione come l’occasione di ripresa economica della città. Vengono osannate le dinamiche del turismo di massa e della devastazione ambientale, in cambio di impieghi sottopagati, stagionali e precari, mentre proprietari di alberghi, bar e ristoranti si riempiono al solito le tasche sulle nostre schiene. Stage non retribuiti, periodi di prova in nero mai rinnovati, orari di lavoro al limite dello schiavismo si nascondono dietro ogni offerta di lavoro.
Intanto il centro città diventa sempre più inaccessibile: affitti di monolocali o bilocali superano i mille euro, bettole e negozietti chiudono per dare posto a bar e alimentari di lusso, a uso e consumo esclusivo dei turisti e di quella minuscola fetta di popolazione che può permetterseli. I rioni periferici sono invece ignorati, l* abitanti inascoltat* e svilit*.
In tutto ciò i sindacati maggiori come si pongono? Oltre a riempirsi la bocca di belle parole, hanno mancato totalmente di iniziative impattanti e significative di fronte alle innumerevoli leggi e riforme del lavoro varate negli ultimi anni: dal Jobs act, alla riforma delle pensioni fino
all’obbligatorietà di quel lavoro non retribuito chiamato “alternanza scuola-lavoro” (ora “PCTO”). Non solo, piegati alle logiche della pacificazione sociale e della collaborazione tra classi, risultano in prima linea nel vanificare e spegnere ogni scintilla di lotta che trascenda dalle loro posizioni servili. Si veda, solo nella nostra città, come hanno lasciato morire (se non sabotato!) le rivendicazioni dei lavoratori della Wartsila o come hanno concordato con la polizia di far caricare e isolare un’intera parte del corteo lo scorso primo maggio.
Non vogliamo quindi mischiarci con il loro corteo, perché far finta che una lotta unitaria esista è pura ipocrisia.
Ci saremo però in piazza proprio per riprenderci una giornata di contestazione che rivendichiamo anche nostra, dei lavoratori e delle lavoratrici e non solo dei sindacati. Vogliamo ribadire chiaramente che c’è bisogno di forza, determinazione e cambiamenti radicali per affrontare le sfide sociali.
Basta cercare di rattoppare un sistema capitalista in crisi perenne, basta cercare di tutelare gli interessi dei ricchi del pianeta, basta politiche che scaricano su* ultim* i fallimenti di un modello economico disastroso. Non sono posizioni pacificatrici nei confronti dei governi che daranno risultati, ma un’opposizione tenace contro ogni prevaricazione.
Non sara’ certo un corteo a sovvertire le rigide dinamiche a cui siamo tutt* soggett*, per noi si tratta di una tappa del nostro percorso di lotta, tramite la quale riteniamo necessario ribadire e rivendicare una narrativa alternativa e contraria a quella dominante.
Ci vediamo il Primo Maggio, dunque, per costruire lo Spezzone Sociale, dalle ore 9 in Campo san Giacomo. Ci separeremo dal corteo principale in via Ghega per continuare la festa in Piazza Libertà con musica e bar a prezzi popolari, presto maggiori informazioni!
Con un leggero ritardo, condividiamo l’audio dell’incontro che abbiamo organizzato lo scorso 3 marzo con Wu Ming 1, per chi non è riuscita ad entrare in sala (eravate davvero tante!) e per chi non è riuscita a venire.
Oltre al bellissimo reading/concerto di due capitoli di Ufo 78 — sui bassi e gli effetti di Luca Demicheli —, l’audio include la conversazione che abbiamo avuto con Wu Ming 1 dove, partendo dall’ultimo libro del collettivo bolognese e dalla Q di Qomplotto, traiamo spunti e riflessioni su diversi temi.
Un contributo per arricchire molte delle discussioni che preoccupano chi agisce politicamente dal basso e un tentativo di cercare nuovi modi di interagire con le rivolte presenti e future, lontano da dogmatismi e settarismi.
Buon ascolto!
I cosiddetti “megabacini” (megabassines) sono giganteschi laghi artificiali — plastificati e che quindi isolano l’acqua immagazzinata dall’habitat circostante — moltiplicatisi negli ultimi anni in Francia per rispondere ai bisogni dell’industria agroalimentare e presentati dai poteri pubblici come una soluzione per adattarsi ai cambiamenti climatici. Con una dimensione fra gli 8 e i 18 ettari, vengono riempiti durante l’inverno per permettere l’innaffiamento dei campi durante i periodi di maggiore stress idrico. Il loro riempimento non avviene soltanto raccogliendo l’acqua della pioggia, come spesso vogliono far credere i loro promotori, ma anche pompandone dalle falde acquifere e dai fiumi vicini. Viene così fortemente alterato l’equilibrio idrico dei territori, attraverso il “furto” di acqua da certe terre e generando una perdita netta dovuta all’evaporazione dai megabacini (stimata fra il 20% e il 60%). Per questi motivi, i progetti dei megabacini vengono considerati, da diversi movimenti ecologisti francesi, come una vera e propria “fuga in avanti” per mantenere a ogni costo un modello agroindustriale devastante per i territori e per chi li abita.
La costruzione di uno di questi megabacini ha messo Sainte-Soline, comune del centro-ovest francese di 350 abitanti, al centro delle proteste ecologiste. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo diverse manifestazioni nella zona del cantiere, fino ad arrivare alle giornate del 25 e 26 marzo, dove circa 30.000 persone si sono radunate per mostrare la loro opposizione a questo progetto e a ciò che esso rappresenta.
Una di noi era là, e ha voluto raccontare la propria esperienza e i propri pensieri, che condividiamo di seguito.
———
Sainte-Soline è stata una vera e propria battaglia. Ma non è stata soltanto questo: è stato anche un momento di unità e rabbia tra movimento ecologista e militanti provenienti da tutta la Francia e da tutta l’Europa, è stata un momento di profondi dibattiti e riflessioni sull’urgenza di agire, sabotare, lottare per il clima, per l’acqua, per le pensioni, per le nostre vite. Lo scorso 25 marzo, Sainte-Soline è stata lo specchio della potenziale forza delle masse, ed è stata lo specchio di cosa lo stato democratico sia disposto a fare pur di difendere il proprio potere. Sì, perché non era quel bacino in costruzione che quei tremila poliziotti e le sue cento camionette avevano il compito di difendere, ma il potere di uno stato che fa difficoltà a mantenere il controllo sul proprio territorio, sulle proprie strade, e anche sui propri luoghi e dispositivi di potere (ad oggi in Francia non bruciano solo i bottini dell’immondizia, ma anche alcuni municipi e camionette della polizia).
Dopo il campeggio, le assemblee e i blocchi di strade e di binari che si sono tenuti il venerdì, tre cortei sono partiti il sabato mattina. Uno (rosa) che voleva essere uno spazio sicuro per chiunque, uno (blu) mirato ad attuare dei sabotaggi prima di attaccare il bacino e l’altro (giallo) che puntava direttamente al bacino.
All’arrivo in prossimità del bacino, davanti allo schieramento militare che si stagliava davanti a noi, l’agitazione si sentiva palpabile e si esorcizzava a battiti di mani, cantando a piena voce all’unisono, al suono di tamburi, trombe, fisarmoniche e chissà quale altro strumento che qualche mattə aveva portato con sé. La forza della rabbia collettiva riecheggiava ovunque e permetteva di avanzare — tenenendosi per mano per tirarsi fuori vicendevolmente dal fango — un gruppo compatto, sospinto da ideali e non dagli ordini di un qualsiasi capo-reparto che ne decidesse le sorti.
I lacrimogeni hanno iniziato a volare ovunque fin da subito, così come gli idranti e le granate. E due parole sulle granate vanno spese, perché per chi, come me, in Francia non ha mai partecipato ad una piazza, sono state qualcosa di raggelante. I poliziotti francesi dispongono di due tipi di granate: quelle sonore (flashbang o stun grenade), che esplodono stordendo, e quelle dette “di désencerclement” (letteralmente “di disaccerchiamento”), vere e proprie granate a frammentazione che al momento dell’esplosione lanciano pezzi di caucciù tutto attorno a sé, infilzando braccia, gambe, occhi o qualsiasi cosa becchino a chi ci stia attorno. L’utilizzo di queste armi ha già causato morti e mutilazioni in Francia e da quanto ci dicevano sono state utilizzate in maniera sempre più normalizzata dal dilagare del movimento dei gilets jaunes in poi.
Arrivati al bacino, mentre il corteo giallo avanzava e premeva contro il cordone della polizia, il corteo blu è riuscito nell’intento di sabotaggio, distaccando un tubo enorme che poi è stato utilizzato come ariete (ops!). Da quel momento è partito l’assalto collettivo al cantiere e la vera e propria guerriglia. Da una parte, c’era una pioggia costante di lacrimogeni e granate, sia vicino che a distanza (anche sui feriti), sparati in aria e ad altezza uomo, mentre dall’altra si rispondeva con nugoli di pietre e non solo, finendo con camionette e poliziotti in fiamme.
La prima linea del cantiere è venuta giù, ma sfondare era pressocché impossibile per la nube costante di lacrimogeni, che impediva a chiunque non avesse una maschera anti-gas di avvicinarsi. L’avanzare e retrocedere è proseguito per un bel po’, finché membri della Brav-M (Brigate motorizzate di repressione di azioni violente) non sono arrivati con i quad a sparare lacrimogeni e granate da dietro, causando un certo allentamento della pressione da parte dei manifestanti. In quel momento si è deciso di fermarsi per lasciare spazio al soccorso dei feriti. Si è valutato poi che la quantità di feriti era troppo grande e i medici troppo pochi quindi, nonostante gran parte delle persone volesse riattaccare il cantiere, si è deciso di ritornare indietro, andando a sabotare altre tubature e pompe un po’ più distanti dal bacino (non senza qualche altro momento di lanci di pietre e materiale pirotecnico, espressione delle varie anime della piazza, uno spontaneismo che significa anche prendere decisioni e stare in piazza in maniere diverse).
Nel frattempo, nelle retrovie alcune compagne e compagni avevano costruito una serra per un agricoltore della zona, a dimostrazione che le nostre forze erano così distruttive quanto propositive. E la parte propositiva è continuata nella serata in cui il vicino comune di Melle (3600 abitanti) è diventato casa per migliaia di militanti che hanno dormito nei parcheggi e nei prati del paese e hanno animato, danzando, la piazza in cui erano allestiti due mega tendoni e diversi bar, punti ristoro, un punto viola, una zona bagni con vecchiettə h24 lì a pulire e distribuire carta igienica, banchetti di associazioni e gruppi e di diffusione di materiale informativo su qualsiasi tema: dal Rojava al nucleare, dalle pensioni all’antifascismo.
Dal palco, a un certo punto, sono intervenute le organizzatrici. Ci sono state lacrime per i compagni e le compagne in pericolo di vita [ad oggi c’è ancora almeno una persona in coma, ndr], c’è stata la rabbia e il voler comunque rivendicare ogni passo fatto assieme e il non fermarsi della lotta. È stato anche espresso il desiderio di far arrivare a tutte le compagne presenti, provenienti da tutta la Francia e l’Europa, l’idea che ciò che è stato fatto a Sainte-Soline può riprodursi e moltiplicarsi in ogni angolo: le manifestazioni, i sabotaggi, le assemblee, la creazione di materiale informativo, la convergenza delle lotte, tutto.
Il giorno seguente, quel villaggio collettivo improvvisato ha ripreso vita tra caffè, pranzi sociali ad offerta libera e dibattiti. Assemblee di centinaia di persone hanno riempito il teatro, il cinema e varie sale di Melle dove vecchiettə e giovani, contadinə e militanti queer, operaiə, anarchichə, comunistə, sindacalistə e chiunque altro, quasi tuttə copertə di fango, hanno intessuto dibattiti e discussioni su come continuare ad agire sul mondo. All’assemblea a cui abbiamo partecipato noi, una signora anziana ha preso parola e, piangendo, ha chiesto scusa per non aver avuto il coraggio di stare davanti durante il corteo, ringraziando chi per lei l’ha fatto, e ha aggiunto che da persona non violenta non ha potuto che festeggiare quando la prima camionetta ha preso fuoco.
Sono quelle realtà, come in Val Susa, che ti colpiscono, facendoti capire come tante persone, dopo aver vissuto sulla propria pelle la violenza dello stato, aver visto le devastazioni delle proprie terre e della propria casa e le ferite dei compagni e compagne di strada, scelgono che il momento del rispetto per chi decide coscientemente di massacrarti è semplicemente finito.
Il bilancio dei due giorni è stato vario. Il movimento si è preso il suo spazio, ha dato una chiara prova di forza e ha creato momenti di condivisione e dialogo. La copertura mediatica della sua presenza – e anche degli abusi polizieschi – è stata ampissima. Chiunque sia statə lì in quei giorni è tornatə a casa con una forza dentro che probabilmente non sentiva prima, e penso sia anche questo lo scopo di ritrovarsi e camminare assieme: sentire di non essere solə in questa lotta impari contro lo schifo di questa società.
Dall’altra parte, ci sono risvolti negativi: lo stato francese, davanti alla forza del movimento ecologista, così come davanti alla forza del movimento contro la riforma delle pensioni, ha tirato dritto e sembra non farsi scalfire, anzi, risponde con una violenza sempre più inaudita, con buona pace dei diritti umani, leggi, convenzioni, costituzioni e valori democatici.Nel caso di Sainte-Soline impedendo addirittura l’arrivo delle ambulanze per un’ora e trenta, mettendo a serio rischio la vita di almeno due persone, una delle quali intubata sul posto dopo ore di attesa.Una persona ha perso l’utilizzo di un occhio, altre due sono finite in coma a lottare per la vita in ospedale, e centinaia sono state ferite e/o hanno vissuto vari stati di shock.
La domanda allora sorge spontanea: vale la pena morire o restare mutilatə a vita per lottare contro un bacino idrico? E per un treno ad alta velocità? Per due anni di pensione che tanto non vedremo mai? Per bloccare un G8? Zittire un fascista? Occupare una casa? Forse per una singola di queste cose no, ma per tutto, per tutto sì. Perché se non fossimo dispostə a mettere in gioco le nostre vite e le nostre fedine penali per ogni singola azione, non faremmo più nulla e il vuoto del decoro, l’oppressione del capitale e lo strapotere delle classi dominanti non avrebbero più argini.
Nonostante le contradizioni, non posso proprio pensare che sia stato sbagliato assaltare quel cantiere, così come sabotarne le tubature in mezzo a granate e lacrimogeni che piovevano da ogni dove. Questo modo di agire — che è dilagato in Francia nelle ultime settimane — ha generato rapporti di forze sbilanciati, per una volta, verso il lato di chi lotta dal basso e non di chi reprime. Per quello non vedo alternative alle scelte prese a Saint-Soline, perché legge formale e legge materiale sono due cose ben diverse. Basta guardare anche l’Italia, in cui le leggi scritte sono abbastanza omogenee ovunque, ma poi ogni regione e città ha dinamiche completamente diverse basate, appunto, sui rapporti di forza stabiliti: dalla possibilità di occupare spazi abbandonati all’applicazione della repressione amministrativa, dalle limitazioni delle questure alla libertà di manifestazione alla presenza più o meno invadente delle forze dell’ordine in determinati quartieri.
Se nel momento di massima repressione di una piazza la risposta è un passo indietro per paura, la repressione ha già vinto. Dovremmo invece essere sempre capaci di ingoiarci le lacrime, ragionare sugli errori e rilanciare in maniera sempre più determinata e ancora più efficace.
La forza di questi due giorni a Saint-Soline non è stata solo nelle molotov come non è stata solo nelle assemblee, ma bensì nella sua interezza: dallo sfidare i posti di blocco in entrata e in uscita, autorganizzandosi attraverso un’infoline, alla cura messa nel creare dei momenti di decompressione e sostegno psicologico, all’autogestione degli spazi, all’attenzione verso quei prati su cui nemmeno una sigaretta trovavi a terra (in mezzo a quattromila bussolotti di lacrimogeni e granate!), alle bande che
suonavano in mezzo alle cariche così come in serata, alle mediche che correvano da tutte le parti, cadendo nel fango in continuazione pur di prestare soccorso.
In una delle assemblee, qualcuna ha detto che non ha senso chiedersi che mondo vorremmo domani perché lo stavamo costruendo in quel momento nell’azione: con il mutualismo, con la solidarietà, con il sostegno alle produzioni dal basso, con l’autotutela collettiva, con la forza che ci davamo vicendevolmente. Penso stia tutto lì. A Sainte-Soline, come in altre situazioni del genere, quel mondo diverso che di solito riusciamo a creare in piccoli gruppetti e piccoli spazi, è stato davvero qualcosa di largo, partecipato e tangibile, ed è la cosa più forte con cui ritorno nella ridente Trst.