Vogliamo Stecco libero e sorridente come noi lo conosciamo! Libere e liberi tutt*!
Vogliamo Stecco libero e sorridente come noi lo conosciamo! Libere e liberi tutt*!
Lo scorso sabato militanti di Sinistra Classe Rivoluzione che stavano tenendo un banchetto informativo sono stati aggrediti da alcuni picchiatori fascisti. Come non potrebbe essere altrimenti, esprimiamo la nostra solidarietà, senza se e senza ma.
Ribadiamo ancora una volta la necessità di organizzare dal basso un fronte ampio, solido e solidale, di non delegare a nessuna istituzione l’antifascismo. I picchiatori di strada sono l’ultimo anello di una catena che inizia nei piani alti del potere economico e politico, sono le pedine più o meno consapevoli di uno status quo fatto di sfruttamento e controllo sociale. Combattere il fascismo è combattere per l’emancipazione di tutte e tutti.
Noi ci siamo e ci saremo, antifascismo sempre!
Vogliamo dare il nostro contributo sugli avvenimenti degli ultimi giorni intorno alla questione della cabinovia metropolitana di Trieste, progetto finanziato con i fondi del PNRR per la mobilità sostenibile che intende costruire un impianto a fune che colleghi la zona del Porto Vecchio in prossimità del centro città con l’altopiano del Carso in zona Opicina. Un’opera che, contrariamente al suo manto “green” costruito sulla retorica della sostenibilità e dell’innovazione, andrà ad impattare fortemente il territorio che attraversa e che, da tempo, vede una forte e variegata opposizione popolare. Le nostre riflessioni sono un punto di vista, una prospettiva tra le tante nel fronte dell’opposizione, che speriamo possano arricchire il dibattito e la mobilitazione in corso.
Intorno al progetto dell’Ovovia aleggiano in città sentimenti ambigui, come se alla fine l’assurdità di questa opera inutile e dannosa bastasse di per sé a fermarne la realizzazione. Non è così. Le grandi opere – a maggior ragione quelle finanziate dal PNRR – hanno una funzione strategica, in termini generali sono ripristino delle catene di valore nel capitalismo in crisi. In soldoni, sono grossi affari di progettazione e costruzione (il finanziamento iniziale PNRR di 48 milioni è lievitato fino ad arrivare ad oltre 63 milioni, raggiunti con finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti e con fondi comunali) nella congiunzione tra pubblico e privato (nel nostro caso amministrazione comunale, governo, Unione Europea e la cordata dell’azienda Leitner) e poi, se non verrà fermato, anche di gestione dell’infrastruttura.
Cosa succede quindi? Accade che sfruttando un’ordinanza sulla manutenzione del verde pubblico il Comune invia in Strada del Friuli una ditta che abbatte un ciliegio, il primo albero dei tanti che è previsto cadano per spianare la strada all’ecomostro. La vigilanza popolare è all’erta: possibile che avvenga un sacrosanto intervento di manutenzione e sfalcio del verde – a detta dei residenti, intervento sostanzialmente non pervenuto negli ultimi 15 anni – con la presenza di ben 5 tecnici comunali a dirigere i lavori, in un punto per giunta toccato dal progetto della cabinovia? Quello che apparentemente sembrava un normale intervento di manutenzione era un piccolo ma significativo moto nell’ingranaggio della megamacchina che si è messa in movimento.
I giornali danno subito risalto alla notizia: il sabotaggio. Contrariamente al can can mediatico, agli scettici e ai politici, ci sembra del tutto superfluo interrogarsi sulla mano che ha compiuto il gesto. Un sabotaggio, come un blocco popolare, è una risposta possibile, e in alcuni casi necessaria, alla violenza istituzionale, alla devastazione del territorio, ai progetti del capitale pubblico-privato. Non si tratta nemmeno di dividere il fronte che si oppone all’opera: ognuno e ognuna si muove con i mezzi che ha disposizione, perché la partita non si gioca nel teatrino della politica e delle legittime posizioni di interesse, ma sul territorio che si abita, in carne ed ossa, senza mediazione. Se lo mettano in testa i politicanti che dal loro salotto fanno la morale, nella speranza di capitalizzare qualche consenso contro il doge demente (sì, parliamo proprio del sindaco alla prese in questi giorni con il complotto per indebolire il governo della sua amica Meloni). Qui parlano e agiscono le persone che vivono sul campo, che lo attraversano ogni giorno per andare a lavorare, che lo difendono e lo curano, che lo custodiscono. Giocano un’altra partita quelli che accumulano e valorizzano capitale – che sia economico, di potere, di consenso politico – che di quel territorio si fa beffe. Semplicemente una risorsa da sfruttare in un modo o nell’altro, per lorsignori. Per noi è altro: è vita, comunità, territorio liberato. In questi giorni, anche semplicemente un riparo fresco dalle torride giornate estive, perché il bosco a differenza del cemento mantiene un ambiente vivibile.
“Invitiamo tutte e tutti a tenere gli occhi aperti, a partecipare in questa lotta attivamente. Siamo responsabili per gli spazi che abitiamo.”
Con queste parole, un gruppo di cittadine, residenti e solidali della zona direttamente colpita dal mega progetto rilanciava la mobilitazione dopo la prima occasione in cui ci si è opposte fisicamente alla costruzione dell’ovovia. Uno “stare in piedi” – in linea con le tradizioni della disobbedienza civile – che ha rallentato i lavori di trivellamento propedeutici all’impiantamento dei famigerati piloni. Una piccolissima – ma comunque rilevante – vittoria, complici le forte pioggie e pure i piccoli sabotaggi che qualcuno ha portato a termine.
Una polemica ferragostana che ha riempito le pagine dei giornaletti locali tra i bollini neri dell’autostrada, qualche femminicidio e le raccomandazioni per sopravvivere all’ennesima ondata di calore, fino a bucare le pagine delle grandi testate democratiche che devono rifarsi una verginità a sinistra. La polemica che ha permesso ai giovani precari giornalisti di fare la loro inchiestina intervistando improbabili opinionisti da spiaggia, mentre i colleghi veterani si occupavano di creare il siparietto ai sempre più inascoltabili politicanti.
La notizia in sé è un gravissimo episodio di razzismo che ha avuto luogo al Pedocin, unica spiaggia separatista d’Italia: alcune donne sono state insultate perché stavano facendo il bagno vestite in mare. Tra le motivazioni principali, urlate con convinzione dalle impavide paladine della cultura italica: il bagno vestite non è igienico. Dopo aver pisciato per anni in quei pochi metri cubi d’acqua vicini al principale porto petrolifero del mediterraneo, all’interno di quel golfo che da un paio d’anni accoglie centinaia di crociere, che inquinano l’aria e le acque quanto migliaia di macchine.
Smontata questa prima ridicola ragione, le rughe bruciate dal sole si irrigidiscono. Le voci si fanno più acute, diventando ancora più intolleranti, razziste e banali: “se sono qua, devono adattarsi alla nostra cultura” aggiungendo, a sostegno di ciò, che “l’ha detto anche il sindaco”. Sì, intendono quel personaggio che rivendica il diritto dei penemuniti di commentare i culi delle femmine. Quel sindaco che dieci anni or sono si è lanciato in giacca e cravatta a fianco del molo audace; un sindaco che fomenta l’intolleranza e rigetta chi ha più bisogno, che al momento lascia in stato di abbandondo più di quattrocento persone dentro il Silos; per cui l’unica cultura è quella del cemento, delle grandi opere, sempre inutili e impattanti, e del profitto di pochi “botegheri”; quello che, con la sua amministrazione, sta svendendo la città a capitali stranieri – solo se facoltosi, gli stranieri sono bene accolti in questa città – per creare strutture turistiche di lusso; che sta rendendo di mese in mese, di anno in anno, la nostra città una vetrina commerciale, invivibile per chi la abita tra la precarizzazione galoppante e il costo della vita schizzato alle stelle. Vetrina che presto diventerà una serra, a causa della cementificazione e del disboscamento del verde pubblico.
Chissà se alle signore del Pedocin verrà qualche dubbio sentendo sfrigolare la loro carne sotto i 40 gradi di questa torrida fine di agosto. Probabilmente daranno la colpa alle donne musulmane che, oltre alla loro cultura, hanno portato qua pure il caldo. L’ultima, più profonda e intellettuale tra le motivazioni per cacciare donne – presumibilmente di religione musulmana – da una spiaggia ritenuta “spazio sicuro”, motivazione ripresa anche dall’assessore regionale Scoccimarro (a cui scappa “per sbaglio” il braccio teso quando si ritrova “casualmente” tra camerati): l’intima preoccupazione che queste donne non siano libere di vestirsi come vogliono, arrivando a contraddire in modo ipocrita la prima asserzione per cui al Pedocin non si può fare il bagno vestite.
L’unica azione empatica e solidale è stata invece organizzata e messa in campo da un gruppo di donne che hanno deciso di dare una risposta a questo attacco razzista. Una risposta semplice e istintiva: un grande bagno collettivo, liberatorio e determinato,tutte vestite ognuna a modo suo. Insomma, la riappropriazione di uno spazio teatro di pratiche fasciste. La speranza è che l’azione sia riuscita a comunicare la violenta sterilità della polemica su come vestire, e che le donne vittime di aggressione possano tornare a testa alta in quella spiaggia, vestite come pare a loro. Durante questa azione non è mancata l’invasione machista di uno spazio che doveva essere sicuro, di sole donne: giornalisti, poliziotti, e fascisti con tatuaggi innominabili, crocifissi e proiettili al collo sono entrati facendo ciò che pareva loro, malgrado le proteste di tante. Per le vittime di ogni razzismo, della violenza delle frontiere interne ed esterne, dello sfruttamento e della repressione, del fascismo e del razzismo che dilagano nella quotidianità delle città in cui viviamo: imponiamoci di rispondere sempre, colpo su colpo, senza mezzi termini e senza compromessi.
Contro la devastazione dei territori e il profitto dei pochi (in questo caso le multinazionali del petrolio e del fossile), la montagna si ribella!
Nel weekend si è tenuta a Paluzza una due giorni di iniziative e mobilitazione contro i piani di allargamento della SIOT.
Nel comune carnico, come anche a Dolina, la SIOT – non paga del mastodontico progetto dell’oleodotto transalpino – vuole imporre sulla testa delle popolazioni delle centrali di cogenerazione a gas. Tutto ciò, spacciandole per misure di abbattimento delle emissioni ed efficientamento energetico (a metano, bella sta storiella del green!). La solita operazione per incrementare i profitti e prendersi un giorno gli incentivi pubblici, che va ad estendere un progetto già devastante come l’oleodotto transalpino.
Resistere alla devastazione dei territori è il primo passo per lottare per la giustizia sociale e climatica. L’unico oleodotto che ci piace è quello che fa il botto!
Qualche giorno dopo il weekend di mobilitazione contro i CPR e le frontiere, ci teniamo a condividere alcune considerazioni su questi due giorni.
Chi ha partecipato e portato i generi di prima necessità ai reclusi non lo ha fatto per spirito di carità, ma perché ha intimamente capito che in quel luogo di tortura i pacchi che abbiamo consegnato possono trasformarsi in mezzo per allargare le maglie di un sistema che attraverso privazioni e violenza si traduce in tortura.
Il cibo che abbiamo messo dentro a quei pacchi potrà forse aiutare qualcuno a rifiutarsi di mangiare il cibo fornito all’interno del CPR da Ekene, la cooperativa che lo gestisce. Dentro quelle razioni – a Gradisca come negli altri CPR – vengono infatti nascosti psicofarmaci volti ad ammansire i prigionieri (o “ospiti“, come li chiamano loro). Da qui il significato politico dei generi alimentari, non abbiamo mai voluto rendere più vivibile quel centro di tortura amministrativa.
Un grande grazie anche alle compagne che sono venute a presentarci “I CPR si chiudono col fuoco“. L’opuscolo (disponibile qui) presenta le testimonianze delle persone rinchiuse e delle rivolte che quest’inverno hanno bruciato molte sezioni del CPR di corso Brunelleschi fino a provocarne la chiusura.
Noi siamo convinte: le affinità politiche più strette si legano attraverso la condivisione delle pratiche di lotta, e per questo ci teniamo a rimandare alla prossima chiamata nazionale, il Passamontagna del 4-5-6 Agosto. Invitiamo chi può a essere presente: la pretesa sovranità degli Stati sui confini nazionali si spezza attraversandoli.
Segnaliamo poi una vicenda estremamente grave, a dimostrazione che la mobilitazione e la solidarietà sono sempre più necessarie per rompere quello stato di invisibilità e isolamento in cui i CPR sono confinati. Nei contatti avvenuti in questi giorni con l’interno abbiamo infatti scoperto che una persona tunisina è in sciopero della fame da tre settimane e negli ultimi giorni è stato portata in ospedale a seguito di atti di autolesionismo. Ieri sera è stato riportato al CPR, ma in una cella e in un’area distanti dai compagni che, in solidarietà, avevano iniziato a rifiutare il cibo. È la seconda volta che intraprende il digiuno nell’ultimo mese, in segno di protesta verso la detenzione arbitraria a cui è sottoposto. Ha avuto problemi politici in Tunisia a seguito delle rivolte della primavera araba, ma nonostante questo la sua richiesta asilo è stata respinta come “pretestuosa”.
Ma le voci dai CPR, per chi vuole ascoltare, parlano di abusi costanti e di persone che nonostante tutto non si piegano: le proteste e le rivolte sono continue, anche se rimangono nel silenzio colpevole di quelle quattro mura. Sta anche a noi farle risuonare, portando solidarietà e appoggio.
Ringraziamo anche per questo le forze dell’ordine, la Prefettura di Gorizia e la cooperativa Ekene che, gelosi di mantenere le persone rinchiuse, sedate e isolate, hanno negato con la forza al presidio di spostarsi sotto le mura del CPR e, sempre con la forza, hanno impedito ai reclusi di far uscire le loro voci da quelle stesse mura.
Come ribadito più volte durante i dibattiti, le persone rinchiuse sono pienamente consapevoli dell’ingiustizia e della violenza che sono costrette a subire all’interno del CPR, tanto da arrivare al punto di mettere a repentaglio il proprio futuro e le proprie stesse vite per far cadere quel muro. C’è chi ha rischiato il rimpatrio per far uscire la testimonianza di un omicidio, c’è chi ha rischiato la pelle per distruggere le mura, il ringraziamento più grande va a loro. Il bisogno profondo di libertà è più potente dell’oppressione quotidiana e soffocante, e il minimo che possiamo fare da fuori è sostenere e amplificare queste voci e questa lotta che riguarda tutti e tutte.
Solidali con chi subisce la violenza dei CPR e delle frontiere e dalla parte di chi prova ad abbattere queste mura.
Lo sapevamo: ci sono battaglie che non ti risparmiano nulla. Quella contro il 41bis e l’ergastolo ostativo per Alfredo Cospito era una di queste.
La scorsa settimana la Digos si è presentata alle porte di tre compagnə, pescatə come al solito nel mucchio, con un ordine di perquisizione, ribaltando le loro case da cima a fondo per sequestrare oggetti come scarpe, manoscritti, computer, telefoni, martelli, volantini e libri. Il fatto che alcuni di questi ultimi fossero ascrivibili alla stampa anarchica è stato riportato nei verbali quasi a rappresentare una prova di criminosità, come se leggere e studiare alcune cose rispetto ad altre sia di per sé prova di reato. Hanno inoltre fotosegnalato i/le compagnə in questura, tentato di prelevarne le impronte digitali e le hanno mantenutə in stato di fermo per quasi 8 ore. Non aggiungiamo altri dettagli, se non che la foga da sequestro ha portato a requisire dispositivi anche di persone non coinvolte nell’inchiesta e che almeno un account google è risultato hackerato e sottratto al proprietario (con tanto di cambio di password e indirizzo di recupero).
Ci abbiamo messo la faccia in questa battaglia, promuovendo iniziative pubbliche, prendendo parola, scendendo in strada: convintx che fosse la cosa giusta, contro una vergogna, un regime di tortura, un macchinario infernale di isolamento, chiamato 41bis e fine pena mai.
I fatti contestati riguardano uno dei tanti episodi della campagna portata avanti in solidarietà al militante anarchico in sciopero della fame (concluso in fin di vita dopo 180 giorni). Poco importa, per quanto ci riguarda, che le iniziative di solidarietà fossero praticate di giorno o di notte: tutte le iniziative erano parte di un percorso più ampio, di quel lavoro infaticabile operato dall’eterogenea solidarietà internazionale per rompere la cappa di silenzio in cui il caso di Alfredo si trovava. Solo dopo un mese dall’inizio dello sciopero della fame, e l’iniziativa dei pochi che hanno preso posizione, il suo caso ha aperto una breccia nella discussione pubblica: da quella feritoia, che si è man mano aperta, si è sviluppata una critica radicale al sistema carcerario punitivo italiano, tra i peggiori a livello europeo, e ai metodi di vendetta nei confronti dei prigionieri rivoluzionari. Per la prima volta è stata messa in discussione la barbarie del 41bis, fin a quel momento invisibilizzata sotto il terrore della mafia.
Arriva ora una delle tante operazioni repressive dello stato: si isola un episodio, si pesca nel mucchio qualcunə per rimestare nelle sua vita privata e dare avvio alla vendetta. Staremo a vedere come finirà: nel frattempo, a testa alta, continueremo a sostenere le ragioni di chi si è battutə e si batte per il cambiamento di questo ordine sociale verso un mondo in sintonia con la natura in cui non ci siano sfruttatə. Il resto prima o poi andrà discusso: la sproporzione, spiccata nella digos di Trieste, tra modalità di investigazione, sorveglianza e arbitrio poliziesco di fronte ai reati contestati; la cappa oppressiva che cerca di togliere l’aria; l’urgenza di riorganizzare tutte le battaglie che questo mondo aspetta. (Ricordiamo che, pare sotto diretta regia da Trieste, la settimana scorsa è avvenuto anche questo).
Approfittiamo intanto di questa visita per ribadire la nostra solidarietà alla lotta intrapresa da Alfredo Cospito (ancora rinchiuso al 41bis, in attesa delle ridefinizione della pena per il processo Scripta Manent) e far risuonare ancora le nostre parole contro la tortura di stato e la persecuzione dei e delle militanti rivoluzionarə .
Una volta di più FUORI ALFREDO DAL 41BIS! Dalla parte di chi lotta!
Lo scorso weekend si è svolta in Val Maurienne un’importante iniziativa internazionale contro la linea ad alta velocità Torino-Lione: un weekend di mobilitazione per unire il lato francese e quello italiano in questa lotta contro la devastazione del territorio. A promuoverla, in prima linea, c’erano il movimento Le Soulevement de la Terre che da tempo porta avanti un percorso radicale su territori, grandi opere, ambiente e risorse idriche; e il movimento Notav, che da trent’anni si batte in Val Susa in difesa del territorio contro il mostro dell’alta velocità e le sue opere inutili, dannose e imposte.
Le giornate, nonostante l’imponente dispositivo di polizia, le interdizioni e gli impedimenti da parte della prefettura locale, la violenza, le granate e le piogge di lacrimogeni, si sono rivelate un successo che – nella varietà delle pratiche – hanno saputo mettere a confronto compagnx di diverse provenienze e in campo pratiche radicali di lotta politica.
Vogliamo però denunciare l’ennesimo episodio di repressione amministrativa, che ha riguardato centinaia di compagnx, tra cui sei triestini, che avevano intenzione di unirsi alla mobilitazione. All frontiera italo-francese, infatti, diverse persone si sono viste notificare un “Refus de entree”, una misura amministrativa di interdizione all’ingresso nel territorio francese motivata con due ragioni: la radicalità del movimento Le Soulevement de la Terra, considerato in sostanza eversivo e di cui, proprio in queste ore, si è deciso lo scioglimento da parte delle istituzioni francesi; la pericolosità delle persone interessate dal provvedimento che sarebbero una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica.
Queste segnalazioni, raccolte ad arte dalle varie questure italiane per compilare delle vere e proprio liste di proscrizione, si basano su variegati momenti di lotta politica, che in molti casi non hanno neanche portato a imputazioni: si tratta dunque di annotazioni discrezionali da parte di organi di polizia, che non permettono alcun tipo di garanzia e difesa. Uno sbirro annota, decidendo della tua pericolosità; da lì in poi la tua libertà di movimento e di manifestazione risulta compromessa. Ci chiediamo dove siano i garantisti in queste occasioni!
Il tutto avviene in una frontiera già pesantemente sorvegliata in senso etnico, che vede continuamente respingimenti ed espulsioni di persone migranti in movimento: una pratica che si sedimenta e rende sempre più visibile il regime della frontiera, come filtro e macchina di controllo dello stato.
Vogliamo dunque denunciare questa deriva repressiva, che fa della prevenzione e della pratica amministrativa il suo strumento fondamentale. Un controllo soft, ma sempre più esteso, che pesa sulle teste di tuttx!
Se siamo delle minacce all’ordine pubblico – ovvero al sistema che garantisce e protegge la devastazione dei territori, il respingimento dei migranti, il profitto dei pochi – lo accettiamo senz’altro; ma respingiamo con forza la schedatura di massa e il controllo poliziesco, che sono la vera minaccia che incombe!