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La questura di Trieste vuole vietare il corteo antifascista del 25 aprile

Quelle che vedete nella foto sono le prescrizioni consegnateci ieri da personale della digos di Trieste, con la quale a due persone scelte arbitrariamente dalla polizia si intima di “non porre in essere” alcuna manifestazione che si allontani da Campo San Giacomo, vale a dire di non fare il corteo del 25 aprile.

Se è lampante la gravità di un questore che vuole impedire un corteo antifascista proprio il 25 aprile – con la scusa del pericolo di arrecare disturbo alle celebrazioni in Risiera -, per noi questa ennesima dimostrazione della volontà di vietare e reprimere è irricevibile.

Abbiamo deciso di manifestare autonomamente il 25 aprile, giorno della liberazione dell’Italia dalle forze nazifasciste, perché per noi ritrovarsi in un luogo della Memoria al fianco delle forze politiche che governano questa città e questo comune non è un’opzione, poiché queste hanno la forma, la dialettica e l’ideologia del nuovo fascismo.

Ci preme sottolineare in particolare due cose.
La prima è appunto la contrapposizione che la questura per prima delinea tra la nostra iniziativa e le celebrazioni ufficiali del giorno della Liberazione, parlando a sprezzo del ridicolo di safety e security, quasi a dire che il 25 aprile nessunx (e noi in particolare) deve disturbare il siparietto in giacca e cravatta delle famigerate istituzioni democratiche, in gran parte incarnate da personaggi che il resto dell’anno non fanno neanche finta di non essere fascisti o loro alleati.

La seconda è il perimetro asfissiante che la polizia politica sta cercando di tracciare attorno a tutto ciò che gravita dentro, a fianco o anche solo nei paraggi della variegata comunità chiamata Burjana (si veda anche quanto successo a Trieste Hardcore).

Per la questura, il corteo antifascista non si deve muovere o può farlo ben lontano dal 25 aprile – fisicamente e temporalmente, come si può leggere. Altro che diritto a manifestare e altre favole.

Confermiamo e rilanciamo quindi con forza l’appuntamento di martedì in Campo San Giacomo alle 9: sarà ancora più importante esserci, per mostrare pubblicamente che per tante e tanti la stanca ritualità della Risiera non è mai stata sufficiente a celebrare e praticare l’antifascismo in un momento in cui farlo è più importante (e ostacolato) che mai. Decidiamo insieme, in piazza,come agire. La questura sta attaccando tuttx lx antifascistx. 

L’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo!
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Appunti su tortura e carcere in Italia

Condividiamo di seguito un testo scritto dall’Assemblea cittadina milanese contro il 41 bis e l’ergastolo in ocasione della chiamata di un presidio lo scorso 15 aprile davanti al carcere di Opera, “con un desiderio di vita per tutte e tutti che [guiderà] la nostra coscienza, lottando per un mondo che non ha bisogno di guerre, che non ammette sfruttati, che non trascura le sofferenze”.

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A fine marzo 2023, il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura ha pubblicato un rapporto sull’Italia dopo aver visitato anche alcune carceri in cui denuncia il sovraffollamento degli istituti (114%). Contemporaneamente l’associazione Antigone ricorda che “attualmente in Italia ci sono oltre 200 persone tra agenti, operatori e funzionari indagati, imputati o condannati per violenze e torture”. La relazione del Garante nazionale dei detenuti sul 41bis scrive che delle 740 persone detenute con questo regime 321 hanno più di 60 anni e 87 hanno più di 70 anni, nell’ultimo anno una decina di persone è morta in carcere, al 41bis.

Dati a cui va aggiunto il conto dei pestaggi, degli abusi e delle violenze compiute dalle forze dell’ordine nelle carceri italiane, che hanno causato 14 morti e centinaia di feriti nella primavera del 2020 e l’altissimo numero di suicidi che in questi ultimi anni stanno accadendo fra le mura: nel 2022 il numero è di 84 detenuti morti suicidi; in tutto il 2020 erano stati 58. L’inclemenza dei numeri restituisce l’immagine di un paese in cui il ricorso alle pene detentive è pratica di governo e motore di consenso. La popolazione carceraria invecchia, a causa di recidive e lunghe detenzioni, ma non mancano i giovani, condannati per reati di lieve entità, immigrati messi all’angolo dalle leggi sulla “clandestinità” che non vogliono, o semplicemente non possono, accettare il ricatto del lavoro sottopagato.

Nel frattempo, la crisi galoppa e l’inflazione riduce i già miseri salari; il conflitto Russia-Ucraina sposta risorse economiche al settore bellico e ripropone un modello di rappresentazione della realtà dicotomico già ampiamente praticato durante la pandemia: o sei con le scelte dello Stato (dei suoi governi) o sei un nemico, mettendo in ombra, come secondarie, tutte le contraddizioni reali che costituiscono il vissuto delle persone.

Il 20 ottobre 2022, Alfredo Cospito, iniziando uno sciopero della fame, individuale e ad oltranza, contro la durezza del regime carcerario a cui è sottoposto, facendone una battaglia per tutti quelli che come lui vi sono sottoposti, apre uno squarcio in questo quadro grigio.

La risposta immediata dei compagni e compagne più vicini ha innescato un importante interesse più generale sul tema. Azioni, presidi, manifestazioni, assemblee e convegni si sono moltiplicate sotto la parola d’ordine “a fianco di Alfredo, contro il 41bis, e l’ergastolo e la sua ostatività”.

Con la sua lotta, Alfredo pone delle questioni generali importanti che sorprendono e non lasciano indifferenti neanche quei settori della cosiddetta “società civile” che si rifanno ad una mutevole concezione dello Stato di Diritto, dell’equilibrio della pena, dei princìpi Costituzionali. La lotta di Alfredo li chiama ad esprimersi, a far uscire dai circuiti specialistici dubbi e certezze.

Così, mentre il governo e parte dell’apparato mediatico cercano di contenere la questione relegandola ad un conflitto tra “la galassia anarchica” (sic!) e lo Stato, lo squarcio aperto da Alfredo si allarga e una gran quantità di galassie mostrano l’immagine di un sistema di governo penale che oppone il carcere alle contraddizioni sociali che non vuole o non sa risolvere.

Per inciso – e per pura coincidenza temporale – questo svelamento trova supporto nell’esito delle due vicende che hanno coinvolto Italia e Francia, l’operazione Ombre Rosse, in cui l’Italia chiedeva a distanza di 40 anni l’estradizione di 10 esuli rifugiatisi in Francia negli anni ‘80, e la richiesta di arresto europeo nei confronti di Vincenzo Vecchi, condannato per il reato del codice fascista di “devastazione e saccheggio” per i fatti di Genova 2001.

Ma il lupo perde il pelo ma non il vizio e mentre Alfredo conduce la sua battaglia per l’abolizione del 41bis e dell’ergastolo ostativo, mentre una tanto diffusa quanto eterogenea solidarietà internazionale lo sostiene ed affianca nella denuncia di queste pratiche di vera e propria tortura, il governo risponde con una serie di provvedimenti che mirano ad un incremento degli ambiti della sfera penale.

Ricordiamo che l’attuale governo ha esordito con una norma sfornata in gran fretta contro i “ravers”, facilmente applicabile a raduni e, perché no, a manifestazioni di dissenso di vario genere. Poi ha cercato consensi invocando carcere per i cosiddetti scafisti, il carcere per le borseggiatrici e i loro bambini, il carcere per gli occupanti di case, legifera pene fino a 3 anni per gli attivisti ambientali e, come ultime in ordine di tempo, le proposte di cancellazione o “ridefinizione” del
reato di tortura (per permettere alle forze dell’ordine di fare il loro lavoro) e all’assunzione di nuovo personale di polizia.

In una fase in cui la crisi economica internazionale manda in tilt il ciclo di produzione e consumo, allargando le fasce di povertà, la risposta del sistema, in difesa di se stesso e dei pochi potentati economico/finanziari di cui è espressione e strumento, è una invocazione emergenziale alla guerra: guerra ai virus, guerra negli scenari internazionali, guerra ai miserabili, meglio se immigrati e neri, vittime di risulta di una macchina sociale che non funziona. Guerra ai dannati della terra. E si sa, ogni guerra ha le sue armi, che siano manipolazioni genetiche, droni e missili sofisticati, leggi speciali e/o carceri ancora più dure.

È una cultura di guerra e di dominio che si diffonde nelle scuole, con l’orrendo connubio del ministero dell’Istruzione con quello della Difesa per condire di militarismo l’educazione dei più
giovani. È la guerra che attraversa il mondo del lavoro con il costante succedersi di vittime ed “incidenti” causati da incuria e brama di profitto, dove gli operai vengono denunciati perché scioperando rallentano la produzione, ed è guerra che atterra sulla società diffusa punendo il dissenso, la sofferenza, il disagio, il bisogno.

Hai rubato e sei povero? Ti viene tolto il sussidio. Sei malato e non puoi pagare? Aspetta. Manifesti davanti al posto di lavoro? Sarai denunciato per aver danneggiato il ciclo produttivo. Occupi una
casa popolare vuota e destinata a restare tale? Sei colpevole di “associazione a delinquere” e così via.

Altro è lo spirito che guida la nostra lotta. È con un desiderio di vita che Alfredo ha iniziato ormai sei mesi fa, il 20 ottobre 2022, lo sciopero della fame e un fortissimo attaccamento alla vita lo ha accompagnato fino ad ora: “Non è vita in 41bis”, scriveva.

È con un desiderio di vita, di una vita vera a migliore, che andremo davanti al carcere di Opera per lanciare un messaggio a chi, recluso, attende la risposta alle sue domande, aspetta per le cure mediche, per i libri, la corrispondenza, a chi non può dare un senso all’esistenza e cerca la libertà. E sarà con un desiderio di vita per tutte e tutti che guideremo la nostra coscienza lottando per un mondo che non ha bisogno di guerre, che non ammette sfruttati, che non trascura le sofferenze.

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Riflessioni da Sainte-Soline

I cosiddetti “megabacini” (megabassines) sono giganteschi laghi artificiali — plastificati e che quindi isolano l’acqua immagazzinata dall’habitat circostante — moltiplicatisi negli ultimi anni in Francia per rispondere ai bisogni dell’industria agroalimentare e presentati dai poteri pubblici come una soluzione per adattarsi ai cambiamenti climatici. Con una dimensione fra gli 8 e i 18 ettari, vengono riempiti durante l’inverno per permettere l’innaffiamento dei campi durante i periodi di maggiore stress idrico. Il loro riempimento non avviene soltanto raccogliendo l’acqua della pioggia, come spesso vogliono far credere i loro promotori, ma anche pompandone dalle falde acquifere e dai fiumi vicini. Viene così fortemente alterato l’equilibrio idrico dei territori, attraverso il “furto” di acqua da certe terre e generando una perdita netta dovuta all’evaporazione dai megabacini (stimata fra il 20% e il 60%). Per questi motivi, i progetti dei megabacini vengono considerati, da diversi movimenti ecologisti francesi, come una vera e propria “fuga in avanti” per mantenere a ogni costo un modello agroindustriale devastante per i territori e per chi li abita.

La costruzione di uno di questi megabacini ha messo Sainte-Soline, comune del centro-ovest francese di 350 abitanti, al centro delle proteste ecologiste. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo diverse manifestazioni nella zona del cantiere, fino ad arrivare alle giornate del 25 e 26 marzo, dove circa 30.000 persone si sono radunate per mostrare la loro opposizione a questo progetto e a ciò che esso rappresenta.

Una di noi era là, e ha voluto raccontare la propria esperienza e i propri pensieri, che condividiamo di seguito.

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Sainte-Soline è stata una vera e propria battaglia. Ma non è stata soltanto questo: è stato anche un momento di unità e rabbia tra movimento ecologista e militanti provenienti da tutta la Francia e da tutta l’Europa, è stata un momento di profondi dibattiti e riflessioni sull’urgenza di agire, sabotare, lottare per il clima, per l’acqua, per le pensioni, per le nostre vite. Lo scorso 25 marzo, Sainte-Soline è stata lo specchio della potenziale forza delle masse, ed è stata lo specchio di cosa lo stato democratico sia disposto a fare pur di difendere il proprio potere. Sì, perché non era quel bacino in costruzione che quei tremila poliziotti e le sue cento camionette avevano il compito di difendere, ma il potere di uno stato che fa difficoltà a mantenere il controllo sul proprio territorio, sulle proprie strade, e anche sui propri luoghi e dispositivi di potere (ad oggi in Francia non bruciano solo i bottini dell’immondizia, ma anche alcuni municipi e camionette della polizia).

Dopo il campeggio, le assemblee e i blocchi di strade e di binari che si sono tenuti il venerdì, tre cortei sono partiti il sabato mattina. Uno (rosa) che voleva essere uno spazio sicuro per chiunque, uno (blu) mirato ad attuare dei sabotaggi prima di attaccare il bacino e l’altro (giallo) che puntava direttamente al bacino.

All’arrivo in prossimità del bacino, davanti allo schieramento militare che si stagliava davanti a noi, l’agitazione si sentiva palpabile e si esorcizzava a battiti di mani, cantando a piena voce all’unisono, al suono di tamburi, trombe, fisarmoniche e chissà quale altro strumento che qualche mattə aveva portato con sé. La forza della rabbia collettiva riecheggiava ovunque e permetteva di avanzare — tenenendosi per mano per tirarsi fuori vicendevolmente dal fango — un gruppo compatto, sospinto da ideali e non dagli ordini di un qualsiasi capo-reparto che ne decidesse le sorti.

I lacrimogeni hanno iniziato a volare ovunque fin da subito, così come gli idranti e le granate. E due parole sulle granate vanno spese, perché per chi, come me, in Francia non ha mai partecipato ad una piazza, sono state qualcosa di raggelante. I poliziotti francesi dispongono di due tipi di granate: quelle sonore (flashbang o stun grenade), che esplodono stordendo, e quelle dette “di désencerclement” (letteralmente “di disaccerchiamento”), vere e proprie granate a frammentazione che al momento dell’esplosione lanciano pezzi di caucciù tutto attorno a sé, infilzando braccia, gambe, occhi o qualsiasi cosa becchino a chi ci stia attorno. L’utilizzo di queste armi ha già causato morti e mutilazioni in Francia e da quanto ci dicevano sono state utilizzate in maniera sempre più normalizzata dal dilagare del movimento dei gilets jaunes in poi.

Arrivati al bacino, mentre il corteo giallo avanzava e premeva contro il cordone della polizia, il corteo blu è riuscito nell’intento di sabotaggio, distaccando un tubo enorme che poi è stato utilizzato come ariete (ops!). Da quel momento è partito l’assalto collettivo al cantiere e la vera e propria guerriglia. Da una parte, c’era una pioggia costante di lacrimogeni e granate, sia vicino che a distanza (anche sui feriti), sparati in aria e ad altezza uomo, mentre dall’altra si rispondeva con nugoli di pietre  e non solo, finendo con camionette e poliziotti in fiamme.

La prima linea del cantiere è venuta giù, ma sfondare era pressocché impossibile per la nube costante di lacrimogeni, che impediva a chiunque non avesse una maschera anti-gas di avvicinarsi. L’avanzare e retrocedere è proseguito per un bel po’, finché membri della Brav-M (Brigate motorizzate di repressione di azioni violente) non sono arrivati con i quad a sparare lacrimogeni e granate da dietro, causando un certo allentamento della pressione da parte dei manifestanti. In quel momento si è deciso di fermarsi per lasciare spazio al soccorso dei feriti. Si è valutato poi che la quantità di feriti era troppo grande e i medici troppo pochi quindi, nonostante gran parte delle persone volesse riattaccare il cantiere, si è deciso di ritornare indietro, andando a sabotare altre tubature e pompe un po’ più distanti dal bacino (non senza qualche altro momento di lanci di pietre e materiale pirotecnico, espressione delle varie anime della piazza, uno spontaneismo che significa anche prendere decisioni e stare in piazza in maniere diverse).

Nel frattempo, nelle retrovie alcune compagne e compagni avevano costruito una serra per un agricoltore della zona, a dimostrazione che le nostre forze erano così distruttive quanto propositive. E la parte propositiva è continuata nella serata in cui il vicino comune di Melle (3600 abitanti) è diventato casa per migliaia di militanti che hanno dormito nei parcheggi e nei prati del paese e hanno animato, danzando, la piazza in cui erano allestiti due mega tendoni e diversi bar, punti ristoro, un punto viola, una zona bagni con vecchiettə h24 lì a pulire e distribuire carta igienica, banchetti di associazioni e gruppi e di diffusione di materiale informativo su qualsiasi tema: dal Rojava al nucleare, dalle pensioni all’antifascismo.

Dal palco, a un certo punto, sono intervenute le organizzatrici. Ci sono state lacrime per i compagni e le compagne in pericolo di vita [ad oggi c’è ancora almeno una persona in coma, ndr], c’è stata la rabbia e il voler comunque rivendicare ogni passo fatto assieme e il non fermarsi della lotta. È stato anche espresso il desiderio di far arrivare a tutte le compagne presenti, provenienti da tutta la Francia e l’Europa, l’idea che ciò che è stato fatto a Sainte-Soline può riprodursi e moltiplicarsi in ogni angolo: le manifestazioni, i sabotaggi, le assemblee, la creazione di materiale informativo, la convergenza delle lotte, tutto.

Il giorno seguente, quel villaggio collettivo improvvisato ha ripreso vita tra caffè, pranzi sociali ad offerta libera e dibattiti. Assemblee di centinaia di persone hanno riempito il teatro, il cinema e varie sale di Melle dove vecchiettə e giovani, contadinə e militanti queer, operaiə, anarchichə, comunistə, sindacalistə e chiunque altro, quasi tuttə copertə di fango, hanno intessuto dibattiti e discussioni su come continuare ad agire sul mondo. All’assemblea a cui abbiamo partecipato noi, una signora anziana ha preso parola e, piangendo, ha chiesto scusa per non aver avuto il coraggio di stare davanti durante il corteo, ringraziando chi per lei l’ha fatto, e ha aggiunto che da persona non violenta non ha potuto che festeggiare quando la prima camionetta ha preso fuoco.

Sono quelle realtà, come in Val Susa, che ti colpiscono, facendoti capire come tante persone, dopo aver vissuto sulla propria pelle la violenza dello stato, aver visto le devastazioni delle proprie terre e della propria casa e le ferite dei compagni e compagne di strada, scelgono che il momento del rispetto per chi decide coscientemente di massacrarti è semplicemente finito.

Il bilancio dei due giorni è stato vario. Il movimento si è preso il suo spazio, ha dato una chiara prova di forza e ha creato momenti di condivisione e dialogo. La copertura mediatica della sua presenza – e anche degli abusi polizieschi – è stata ampissima. Chiunque sia statə lì in quei giorni è tornatə a casa con una forza dentro che probabilmente non sentiva prima, e penso sia anche questo lo scopo di ritrovarsi e camminare assieme: sentire di non essere solə in questa lotta impari contro lo schifo di questa società.

Dall’altra parte, ci sono risvolti negativi: lo stato francese, davanti alla forza del movimento ecologista, così come davanti alla forza del movimento contro la riforma delle pensioni, ha tirato dritto e sembra non farsi scalfire, anzi, risponde con una violenza sempre più inaudita, con buona pace dei diritti umani, leggi, convenzioni, costituzioni e valori democatici. Nel caso di Sainte-Soline impedendo addirittura l’arrivo delle ambulanze per un’ora e trenta, mettendo a serio rischio la vita di almeno due persone, una delle quali intubata sul posto dopo ore di attesa.

Una persona ha perso l’utilizzo di un occhio, altre due sono finite in coma a lottare per la vita in ospedale, e centinaia sono state ferite e/o hanno vissuto vari stati di shock.

La domanda allora sorge spontanea: vale la pena morire o restare mutilatə a vita per lottare contro un bacino idrico? E per un treno ad alta velocità? Per due anni di pensione che tanto non vedremo mai? Per bloccare un G8? Zittire un fascista? Occupare una casa? Forse per una singola di queste cose no, ma per tutto, per tutto sì. Perché se non fossimo dispostə a mettere in gioco le nostre vite e le nostre fedine penali per ogni singola azione, non faremmo più nulla e il vuoto del decoro, l’oppressione del capitale e lo strapotere delle classi dominanti non avrebbero più argini.

Nonostante le contradizioni, non posso proprio pensare che sia stato sbagliato assaltare quel cantiere, così come sabotarne le tubature in mezzo a granate e lacrimogeni che piovevano da ogni dove. Questo modo di agire — che è dilagato in Francia nelle ultime settimane — ha generato rapporti di forze sbilanciati, per una volta, verso il lato di chi lotta dal basso e non di chi reprime. Per quello non vedo alternative alle scelte prese a Saint-Soline, perché legge formale e legge materiale sono due cose ben diverse. Basta guardare anche l’Italia, in cui le leggi scritte sono abbastanza omogenee ovunque, ma poi ogni regione e città ha dinamiche completamente diverse basate, appunto, sui rapporti di forza stabiliti: dalla possibilità di occupare spazi abbandonati all’applicazione della repressione amministrativa, dalle limitazioni delle questure alla libertà di manifestazione alla presenza più o meno invadente delle forze dell’ordine in determinati quartieri.

Se nel momento di massima repressione di una piazza la risposta è un passo indietro per paura, la repressione ha già vinto. Dovremmo invece essere sempre capaci di ingoiarci le lacrime, ragionare sugli errori e rilanciare in maniera sempre più determinata e ancora più efficace.

La forza di questi due giorni a Saint-Soline non è stata solo nelle molotov come non è stata solo nelle assemblee, ma bensì nella sua interezza: dallo sfidare i posti di blocco in entrata e in uscita, autorganizzandosi attraverso un’infoline, alla cura messa nel creare dei momenti di decompressione e sostegno psicologico, all’autogestione degli spazi, all’attenzione verso quei prati su cui nemmeno una sigaretta trovavi a terra (in mezzo a quattromila bussolotti di lacrimogeni e granate!), alle bande che

suonavano in mezzo alle cariche così come in serata, alle mediche che correvano da tutte le parti, cadendo nel fango in continuazione pur di prestare soccorso.

In una delle assemblee, qualcuna ha detto che non ha senso chiedersi che mondo vorremmo domani perché lo stavamo costruendo in quel momento nell’azione: con il mutualismo, con la solidarietà, con il sostegno alle produzioni dal basso, con l’autotutela collettiva, con la forza che ci davamo vicendevolmente. Penso stia tutto lì. A Sainte-Soline, come in altre situazioni del genere, quel mondo diverso che di solito riusciamo a creare in piccoli gruppetti e piccoli spazi, è stato davvero qualcosa di largo, partecipato e tangibile, ed è la cosa più forte con cui ritorno nella ridente Trst.

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Lo spauracchio anarchico e la repressione preventiva (ancora)

Sabato a Torino la rabbia degli oppressi si è riversata nelle strade del lusso. È stata sfondata qualche vetrina. Succede. Qualche celerino ha visto dei sampietrini volare verso di lui. Capita. Un paio di specchietti di Suv sono stati sradicati. Spiaze.

Ci rammarichiamo solamente che qualche compagna non sia riuscita a esserci.

La condanna a morte di Alfredo, non poteva lasciarci indifferenti. C’è stato il dolore, c’è stata la rabbia e c’è la consapevolezza che, in questa continua lotta di chi si mobilita contro sfruttamento, disuguaglianze e repressione dello stato, la condanna a morte di un compagno segna un punto di svolta.

Come accennato, sabato a Torino qualcuna a quel corteo non c’è nemmeno arrivata perché, con la scusa dello stato di “necessità e urgenza”, le guardie hanno iniziato a fermare le persone nelle strade della città già dalla mattina. Quattro di noi sono state fermate, gli sono stati tolti i telefoni, sono state portate in questura e perquisite senza avere la possibilità di avvisare nessuno.

Più di venti persone sono rimaste fino alle 22 in un portico di venti metri quadri senza poter chiamare un avvocato, senza telefoni, senza possibilità di avere risposta sullo stato di fermo.

Le nostre compagne fermate sono state rilasciate a tarda sera tutte con foglio di via da Torino per un anno, con l’accusa di essere socialmente pericolose. Come nel caso del 41 bis, il foglio di via è un dispositivo integrato nell’ambito dell’antimafia e spesso trasformato in arma contro la dissidenza politica. In questo caso, la supposta pericolosità sociale delle compagne era dovuta alla loro volontà di partecipare a un corteo.

Nel verbale di perquisizione scrivono che abbiamo rifiutato di avvalerci di un legale di fiducia. Falsità: la richiesta di un avvocato è stata ribadita collettivamente per ore, cercando pure di far passare il numero del legal team ai passanti in strada, e ottenendo invece come risposta lo schieramento di un blindato antisommossa (oltre al portone da cui cercavamo di comunicare).

«Che l’unica guerra a cui partecipiamo ci veda a fianco di tutti gli sfruttati, sulla barricata che ci divide dagli sfruttatori, a urlare la nostra rabbia per una decisione che segna un ulteriore cambio di passo nella repressione delle lotte: la condanna a morte di un compagno.»

P.S. Ne approfittiamo per condividere un’utile guida, che di questi tempi non si sa mai: https://infuriati.noblogs.org/files/2017/02/Sicurezza-e-Controsorveglianza-lettura.pdf

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Respinto dalla Cassazione il ricorso di Alfredo Cospito

La Cassazione ha respinto il ricorso dell’avvocato di Alfredo Cospito.

Resterà al 41bis.

Condannato a morte da uno stato assassino!

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Continuare a seminare su terra bruciata

A seguito di certi fatti accaduti durante le scorse settimane, e con una minima prospettiva, sentiamo la necessità di condividere alcune riflessioni.

Iniziamo riassumendo i suddetti fatti. Sabato 4 febbraio, Trieste Hardcore prevedeva di organizzare, in orario pomeridiano, un concerto dove avrebbero suonato diverse band. Doveva essere il quarto appuntamento di una serie di eventi organizzati per portare musica punk live in una città dove manifestazioni del genere sono più uniche che rare. Il giorno prima dell’evento, il gestore dello spazio avvisa gli organizzatori che la polizia politica, ai più nota come Digos (Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali), gli ha “consigliato caldamente” — parrebbe tramite un consigliere circoscrizionale di FdI — di annullare il concerto.

Qual è stata la motivazione di questo intervento preventivo e avvenuto nell’ombra da parte della questura? Nient’altro che la presunta presenza di anarchicx ai concerti di Trieste Hardcore, la quale, secondo gli agenti, avrebbe portato inevitabilmente a violenti disordini e a gravi danni durante l’evento (nonostante quelli precedenti non avessero generato altro che quintali di sudore, qualche decibel sopra la media e molta gioia). Davanti a tali avvertimenti, i gestori dello spazio si sono sentiti costretti ad accogliere la “richiesta” dei digossini. Niente più concerti, e non solo: salta anche la disponibilità dello spazio per un’altra iniziativa di Burjana in programma per marzo (stay tuned!).

Qualsiasi persona con un minimo di coscienza storica non si stupirà di questo utilizzo repressivo dello spauracchio anarchico. Da quando lo scorso 20 ottobre Alfredo Cospito ha iniziato uno sciopero della fame — che continua ancora oggi, nonostante le sue fragilissime condizioni di salute, in una cella dell’ospedale San Paolo di Milano omologata al 41bis — si è scatenata una campagna di solidarietà che è andata ben oltre il suo gruppo politico di riferimento. Per il ritorno di Alfredo ad un regime carcerario “normale” e contro gli istituti del 41bis e dell’ergastolo ostativo, si sono espressi non solo parlamentar*, giornalist* e giurist* di taglio progressista, ma anche numerosi gruppi politici extraparlamentari che — come la Burjana — non sono direttamente ascrivibili all’area anarchica.

Questa trasversalità ha mandato in tilt i meccanismi politico-mediatici del governo meloniano e dei difensori a oltranza delle torture istituzionalizzate (tra cui spiccano, appunto, il regime del 41bis e l’ergastolo ostativo). La risposta di quella macchina è stata un revival del “terrore anarchico”, attraverso una prassi comunicativa semplice quanto efficace: circoscrivere all’area anarchica qualsiasi azione realizzata in solidarietà con Cospito, ingigantire i sabotaggi e focalizzare tutta l’attenzione mediatica su di essi. Per vederne il risultato basta aprire qualsiasi quotidiano o guardare per pochi minuti un qualunque telegiornale. Nel giro di poche settimane è stato rimesso in piedi il vecchio nemico pubblico numero 1. La logica su cui si basano tutte le informazioni a riguardo è la seguente: Gli anarchici sono il male + soltanto gli anarchici esprimono solidarietà con Cospito >> Chiunque esprima solidarietà con Cospito è anarchico >> Chiunque esprima solidarietà con Cospito è il male.
Un sistema di sillogismi ridicolo e fallace, ma che sta portando a una repressione feroce.

Una volta messo in piedi e integrato all’interno della macchina mediatica, questo meccanismo risulta molto utile a questure, prefetture e comuni per mantenere il controllo dei loro feudi. La censura di fatto dei concerti di Trieste Hardcore ne è un esempio: essa è stata eseguita utilizzando come pretesto la vicinanza fra il gruppo punk e la Burjana (e quindi, per quanto spiegato sopra, fra TsHc e i pericolosi anarchici). Pretesto, diciamo, perché al netto delle contingenze, Trieste è una città dove qualunque iniziativa di gestione dal basso della socialità viene stroncata, in un modo o nell’altro, lapidata da multe e altri dispositivi repressivi, siano essi penali o amministrativi. Basta aver vissuto qualche anno da queste parti per farsi venire in mente più di un esempio di spazi di questo tipo che sono stati costretti, più o meno direttamente, a chiudere.

Decoro e civismo sono le scuse usate in tempi di “pace” per reprimere la creazione e lo sviluppo di spazi al di fuori dei circuiti del consumo obbligato e dello sfruttamento lavorativo. Ora che lo Stato italiano ha dichiarato di essere in guerra contro gli anarchici, le scuse cambiano, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: mantenere lo status quo, disclipinare le minoranze devianti adoperando meccanismi securitari in nome di una supposta maggioranza democratica.
Operazioni che, oltre alla repressione immediata, hanno come fine anche l’isolamento e l’inagibilità politica sul lungo periodo. Chi in questa città cerca di mantenere “l’ordine pubblico” sa bene che colpire spazi di socialità e aggregazione rende più difficoltoso creare reti di condivisione di idee, di visioni, di pratiche e di prospettive al di là di quelle delle istituzioni statali. Un obiettivo che accontenta una certa fetta di cittadinanza sdraiata e che diventa quindi redditizio dal punto di vista elettorale. Ed ecco che la giunta del decoro, del centro vetrina e dell’appiattimento culturale ritrova come alleato la macchina repressiva e divisiva dello stato.

Nonostante si tenti di farci terra bruciata attorno, noi non demordiamo. Continueremo ad aprire e a sostenere spazi di autogestione, dove immaginare e mettere in pratica altri mondi, dove lottare senza farci schiacciare ai margini, mantenendoci in contatto con la città e con la campagna, perché crediamo fermamente che i grossi cambiamenti che sogniamo siano la strada per rendere migliore la vita di (quasi) tutte e tutti.

Ci si vede presto, da qualche parte.

PS – Una piccola nota: pubblichiamo questa comunicazione sui nostri social perché è un modo di arrivare a più persone, ma spingiamo per una solidarietà attiva nel mondo materiale: pensiamo che la roboanza limitata alla realtà virtuale sia una delle peggiori tendenze dei nostri tempi. Come un cane che per istinto abbaia da dietro un cancello, ma quando questo viene aperto abbassa la coda e si ammutolisce, così le parole cui non seguono i fatti creano solo illusioni e false aspettative, contribuendo a generare frustrazione. Ci sembra di star vivendo tempi in cui non si possa più scherzare: prendiamoci cura l’un l’altra, difendiamoci e supportiamoci a vicenda concretamente, non lasciamoci addomesticare e opprimere senza reagire

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Iniziative

[16/02] In piazza con Alfredo e contro il 41bis

GIOVEDÌ 16 FEBBRAIO // ORE 17 // LARGO BARRIERA

Scriviamo queste righe nell’urgenza, nella rabbia e nell’angoscia dell’attuale situazione invitando ad una presenza massiccia.

Come saprete, Alfredo Cospito si trova attualmente all’interno di una cella di 41 bis costruita nell’ospedale San Paolo di Milano, restando “murato vivo in quel sarcofago di cemento” e rischiando un collasso in ogni momento. La sua lotta continua contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, come la nostra in suo supporto. Terminerebbe lo sciopero della fame se venisse declassato.

I media hanno sviluppato, nelle ultime settimane, una narrazione indegna, cercando di annientare la potenza di questa battaglia, del supporto solidale e del dibattito pubblico che si è sviluppato attraverso una grottesca barzelletta di governo, una strategia della tensione già vista, e un’assimilazione tra Alfredo Cospito e la mafia.

Rimbalzandosi le responsabilità tra istituzioni stanno portando Alfredo Cospito alla morte.

Pensiamo che il 41bis e l’ergastolo ostativo vadano aboliti e che non vogliamo vivere in un paese che fa morire un prigioniero politico in sciopero della fame. Pensiamo che i cambiamenti nella società hanno un tempismo delicato, ci sono momenti in cui posticipare non è neutro, è assecondare. Ci sono momenti in cui non fare niente ha conseguenze storiche maggiori di altri. La partita si sta giocando ora, scendiamo in piazza giovedì.

Vieni e diffondi!
Fuori Alfredo dal 41 bis!
(Per chi fosse interessata/o qui si può ascoltare la diretta della conferenza stampa dell’avvocato Flavio Rossi Albertini e di Luigi Manconi di venerdì scorso: https://www.facebook.com/watch/live/?ref=watch_permalink&v=1148837679153540)
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[28/01] Corteo – Fuori Alfredo dal 41bis!

28 GENNAIO ORE 15.00
PARTENZA CAMPO SAN GIACOMO (TRIESTE)

Alfredo ha ormai superato i 90 giorni di sciopero della fame. Lotta per tutte e tutti noi contro gli abomini giudiziari del 41 bis e dell’ergastolo ostativo, sempre più usati per reprimere il dissenso politico. Da maggio 2022 è stato infatti murato vivo nel carcere di Bancali, senza poter vedere un ciuffo d’erba, un cielo senza sbarre o avere alcun tipo di comunicazione con l’esterno. E’ la ferocia vendetta di uno stato che, dichiarandosi democratico e civile, usa tutta la sua violenza istituzionale per reprimere chi non ha mai abbassato la testa, i suoi nemici giurati.
Tortura è sempre tortura: carcere duro, ergastolo senza fine o benefici, regimi differenziati, stragi nelle carceri (come accaduto durante le misure sanitarie d’emergenza, con 14 detenuti ammazzati) – qualunque sia la retorica che li giustifica – rimangono delle pratiche indegne, da fermare immediatamente. La loro funzione, come per tutte le disposizioni emergenziali di cui abbiamo subito le conseguenze anche negli ultimi anni, è rendere la barbarie una pratica permanente, accettata per paura o convenienza. Con la cosiddetta “lotta al terrorismo”, da ormai decenni, una scure repressiva è stata calata sulla società: sorveglianza, inasprimento delle pene, fino alla punta più avanzata, i regime carcerari.

Grazie ad Alfredo si è aperta una crepa, guardiamoci oltre! E’ il momento di prendere posizione, sostenere chi lotta con l’unica arma che gli rimane – il suo corpo – decidendo di dedicare la sua vita alla denuncia di questi trattamenti.

No 41bis, No tortura!
Per l’abolizione dell’ergastolo ostativo e dell’emergenzialismo penitenziario!

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[20/01] Fuori Alfredo dal 41bis – Proiezione e assemblea aperta

VENERDÌ 20 GENNAIO / ORE 18.00
BAR LIBRERIA KNULP

Alfredo Cospito, rinchiuso al 41 BIS nel carcere di Bancali, è un anarchico che si trova attualmente recluso perché accusato, con Anna Beniamino, di un attentato in cui furono posizionati due ordigni a basso potenziale (polvere dei fuochi d’artificio) davanti ad una scuola dei Carabinieri. L’attentato avvenne nella notte in un luogo isolato, non causò né morti né feriti ma fu classificato come strage semplice, in un processo con poche e strane prove. Durante la detenzione Alfredo ha continuato a contribuire pubblicamente al dibattito anarchico internazionale con scritti e libri. Per farlo tacere, o forse per cieca vendetta, nel 2022 lo Stato intraprende due strade: il 4 maggio la ministra Cartabia firma un decreto di applicazione del regime del 41 bis per Cospito, la ragione è la sua attività scritta dal carcere, applicando per la prima volta tale regime non per prevenire relazioni segrete e pizzini ma per reprimere la diffusione pubblica di idee. La seconda avviene il 6 luglio con una raffinata forzatura giuridica in cui la Cassazione riqualifica l’attentato come strage contro la sicurezza dello stato, punibile con l’ergastolo ostativo. Tale condanna è una delle più gravi dell’ordinamento giuridico e non fu comminata nemmeno per le stragi di Piazza Fontana o di Falcone e Borsellino, dove diverse tonnellate di tritolo fecero saltare autostrade e piazze e dove morirono due giudici, le loro scorte e molte persone.

Ma Alfredo, che non è mafioso ma anarchico, davanti alle ingiustizie e ai soprusi risponde. E dall’orrore in cui lo seppelliscono, trae forza per contrattaccare, non per un tornaconto personale, ma per un miglioramento delle condizioni di tutti e tutte. Con l’unica arma che gli rimane a disposizione, il corpo, dal 20 ottobre Alfredo Cospito inizia uno sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo, i “due abomini repressivi dello Stato Italiano”. Dopo più di ottanta giorni di digiuno sta rischiando la vita. Il tribunale di Roma, a dicembre, ha confermato la sua permanenza in questo regime di tortura. Il suo sciopero della fame continua ad oltranza.

Di fronte al silenzio istituzionale e alle manovre più o meno esplicite per depistare, una volta di più, le ragioni di una battaglia di giustizia e libertà (che per la prima volta emerge con questa forza nei confronti delle torture del 41 bis e dell’ergastolo ostativo) non possiamo che prendere parola, mobilitarci e rompere la cortina fumogena che cala su queste questioni.

Questa lotta riguarda tutti e tutte: anche fuori dalle prigioni diamone voce e visibilità!

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In città contro il 41bis e l’ergastolo ostativo

Anche oggi abbiamo fatto un giro in città per ricordare che una persona è in sciopero della fame da 79 giorni contro il regime del 41 bis, in cui è stata confinata dallo stato (ministero della giustizia, Direzione nazionale antimafia e terrorismo, tribunale di sorveglianza) per pura vendetta. Nel silenzio generale c’è chi rischia la propria pelle per battersi contro la tortura, per rompere le mura di silenzio di questo dispositivo infame. Alfredo Cospito, militante anarchico, sta lottando per tutti/e noi, contro la tortura di stato, l’ergastolo ostativo e il 41 bis. Il minimo che possiamo fare è raccontare la sua lotta e diffondere le iniziative di solidarietà.

Contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo!
Al fianco di Alfredo e di tutti i militanti rivoluzionari!