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[01/05] Primo Maggio – Spezzone Sociale

Primo Maggio, ore 9 campo san Giacomo, Spezzone Sociale, dopo il corteo festa in Piazza Libertà!

Siamo lavoratori e lavoratrici schiacciate dal carovita che continuano a vedere i propri salari immutati mentre l’inflazione galoppa tra il 7 e il 10% ormai da mesi. I rincari di materie prime e alimenti vengono continuamente scaricati su cittadini e cittadine, mentre il governo smantella i già scarsi ammortizzatori sociali e la politica tutta continua a glissare sull’eterna crescita del precariato e sull’uso di contratti a minima (se esistente) tutela. Anzi, la flessibilità del lavoro viene sbandierata come desiderabile e competitiva, meglio ancora se abbinata con la disponibilità di lavoratori e lavoratrici ad essere sempre contattabili, dispost* a lavorare ore extra, “chiaramente” gratis. La crisi energetica globale e i conflitti bellici vengono discusse con l’unico obiettivo di preservare il profitto: poco importa dei costi in temini ambientali e di vite umane!

Nel sostenere le rivendicazioni tradizionali sul lavoro (aumento degli stipendi, maggiore stabilità, riduzione della giornata lavorativa, conciliazione vita-lavoro), riteniamo di doverle integrare in una visione d’insieme: la crisi climatica e delle materie prime devono essere affrontate attraverso un radicale cambio della società e dei sistemi di produzione e consumo.

Già nel piccolo della nostra città, vediamo come politica ed affaristi rincorrano solo il profitto ad ogni costo. Grandi navi ed ovovia sono sbandierati dall’amministrazione come l’occasione di ripresa economica della città. Vengono osannate le dinamiche del turismo di massa e della devastazione ambientale, in cambio di impieghi sottopagati, stagionali e precari, mentre proprietari di alberghi, bar e ristoranti si riempiono al solito le tasche sulle nostre schiene. Stage non retribuiti, periodi di prova in nero mai rinnovati, orari di lavoro al limite dello schiavismo si nascondono dietro ogni offerta di lavoro.

Intanto il centro città diventa sempre più inaccessibile: affitti di monolocali o bilocali superano i mille euro, bettole e negozietti chiudono per dare posto a bar e alimentari di lusso, a uso e consumo esclusivo dei turisti e di quella minuscola fetta di popolazione che può permetterseli. I rioni periferici sono invece ignorati, l* abitanti inascoltat* e svilit*.

In tutto ciò i sindacati maggiori come si pongono? Oltre a riempirsi la bocca di belle parole, hanno mancato totalmente di iniziative impattanti e significative di fronte alle innumerevoli leggi e riforme del lavoro varate negli ultimi anni: dal Jobs act, alla riforma delle pensioni fino
all’obbligatorietà di quel lavoro non retribuito chiamato “alternanza scuola-lavoro” (ora “PCTO”). Non solo, piegati alle logiche della pacificazione sociale e della collaborazione tra classi, risultano in prima linea nel vanificare e spegnere ogni scintilla di lotta che trascenda dalle loro posizioni servili. Si veda, solo nella nostra città, come hanno lasciato morire (se non sabotato!) le rivendicazioni dei lavoratori della Wartsila o come hanno concordato con la polizia di far caricare e isolare un’intera parte del corteo lo scorso primo maggio.

Non vogliamo quindi mischiarci con il loro corteo, perché far finta che una lotta unitaria esista è pura ipocrisia.

Ci saremo però in piazza proprio per riprenderci una giornata di contestazione che rivendichiamo anche nostra, dei lavoratori e delle lavoratrici e non solo dei sindacati. Vogliamo ribadire chiaramente che c’è bisogno di forza, determinazione e cambiamenti radicali per affrontare le sfide sociali.

Basta cercare di rattoppare un sistema capitalista in crisi perenne, basta cercare di tutelare gli interessi dei ricchi del pianeta, basta politiche che scaricano su* ultim* i fallimenti di un modello economico disastroso. Non sono posizioni pacificatrici nei confronti dei governi che daranno risultati, ma un’opposizione tenace contro ogni prevaricazione.

Non sara’ certo un corteo a sovvertire le rigide dinamiche a cui siamo tutt* soggett*, per noi si tratta di una tappa del nostro percorso di lotta, tramite la quale riteniamo necessario ribadire e rivendicare una narrativa alternativa e contraria a quella dominante.

Ci vediamo il Primo Maggio, dunque, per costruire lo Spezzone Sociale, dalle ore 9 in Campo san Giacomo. Ci separeremo dal corteo principale in via Ghega per continuare la festa in Piazza Libertà con musica e bar a prezzi popolari, presto maggiori informazioni!

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25 aprile 2023: divieti, manganelli e un’allegra passeggiata antifascista

La giornata del 25 Aprile a Trieste si potrebbe definire surreale e grottesca, ma al tempo stesso bellissima e di comunità. Un grazie di cuore a tutte le persone e realtà che, nonostante l’irricevibile divieto del corteo da parte della questura, hanno scelto di partire lo stesso, dando vita ad una passeggiata antifascista sulle zone pedonali. Un 18 TULPS invece all’ingente spiegamento di forze dell’ordine in antisommossa che con 5 camionette, agenti e digos ha bloccato ingiustificatamente il traffico di mezza città.
Il movimento antifascista triestino ieri ha risposto unito e determinato alla chiamata del collettivo Burjana alla costruzione di un 25 aprile diverso, antitetico all’ormai ingessato siparietto istituzionale di finto rispetto alla memoria della Resistenza e delle persecuzioni nazifasciste. Volevamo arrivare insieme fino alla Risiera, denunciando sì l’ipocrisia delle istituzioni, in questa giornata che dovrebbe essere di condivisione e ricordo, ma senza mancare di rispetto al luogo di memoria che è la Risiera. Era stato dichiarato fin dall’inizio, e ribadito in diversi interventi lungo la strada.
Il questore Ostuni, invece, inventa oggi fantomatiche minacce e rischi posti dalla passeggiata alle celebrazioni ufficiali per giustificare la sua maldestra incompetenza e inettitudine nel gestire il famoso ordine pubblico. Dichiara: “L’intenzione dei manifestanti era di entrare in Risiera durante la cerimonia e disturbarla”. Niente di più falso. Infatti la passeggiata si è conclusa esattamente come era stata immaginata e comunicata fin dall’inizio: al di fuori della Risiera.
Il questore non cerchi di scaricare su di noi la sua incapacità nel gestire il malcontento generale. In un sol colpo, è riuscito a negare il diritto a celebrare la giornata della Liberazione sia a chi ha partecipato alla passeggiata, sia a chi si è ritrovatə esclusə dalle celebrazioni ufficiali per pericoli mai esistiti, e si vergognino i giornalisti che, con orwelliana omertà, danno voce acritica a queste dichiarazioni. È stato il questore a decidere di schierare – senza un motivo concreto – agenti in tenuta antisommossa di polizia, guardia di finanza e carabinieri: davanti al gruppo di antifascistə, a destra e a sinistra dell’ingresso alla Risiera e in via Valmaura. Sono stati lui e la DIGOS a dare dimostrazione di totale incomprensione della giornata, impedendo che si rispettasse la memoria della Resistenza.
Corteo e persone rimaste fuori dal monumento non sono responsabili del caos e della violenza di ieri: sono, al contrario, la parte meravigliosa della giornata. Gli e le antifascistə triestinə si sono riunitə, confrontatə e hanno deciso coralmente di partire nonostante le immotivate e insensate prescrizioni. Hanno dichiarato con cori, slogan e interventi la necessità di essere antifascistə e antirazzistə ogni giorno, e ribadito l’importanza di ricordare Resistenza e morti del fascismo con azioni reali piuttosto che con siparietti una volta all’anno. Bloccatə a 200 metri dalla Risiera, hanno denunciato l’assurdità di quel dispiegamento di forze dell’ordine, chiamando ad avvicinarsi tutte quelle persone che alla Risiera stavano andando o – come ancora non sapevamo – stavano venendo tenute fuori da altri cordoni di antisommossa. In tantə si sono avvicinate allo schieramento che bloccava il corteo, circondando gli agenti e creando uno stallo durato quasi due ore. Nel mentre arrivavano foto e notizie dei blocchi davanti alla Risiera stessa, del piazzale mezzo vuoto e di Dipiazza e Fedriga che si riempivano la bocca di parole come: “In questo monumento nazionale che è la Risiera si celebra la festa di un intero paese” e “sono contento dell’ampia partecipazione [che] testimonia che questa è una manifestazione unitaria”. Dichiarazioni surreali, data la situazione. 
La giornata non poteva che finire in modo altrettanto assurdo: la polizia ha caricato le persone bloccate, manganellando una compagna a terra alla testa mentre stava raccogliendo il pallone che i manifestanti usavano per giocare a “sbirro-volley” da un lato all’altro del cordone, un modo ironico per sottolineare l’assurdità della situazione. Una palla che ha fatto perdere il controllo agli esaltati delle prime file, che a stento sono stati poi trattenuti dai loro capi.
Solo dopo questa scena incredibile e a cerimonia ufficiale ormai quasi conclusasi, la DIGOS si è finalmente decisa a sciogliere il blocco, lasciando sfilare le persone presenti fino alla Risiera. L’ultima prova di inettitudine doveva però ancora esser data: la celere schierata a sbarrare l’ingresso al monumento con persone dentro e fuori.
Non ci sono parole per descrivere la gravità di questo fatto! Forze dell’ordine schierate per impedire a degli antifascisti l’ingresso in un posto della memoria, il 25 aprile per giunta.
L’abbiamo detto ieri, lo ribadiamo oggi: qualcunə è responsabile di questo disastro, qualcunə deve renderne conto.
È ormai evidente a chiunque che i livelli di repressione e violenza questurile sono in constante crescita e che dobbiamo fare fronte comune agli ignobili divieti di manifestare ed esprimere dissenso. Ieri siamo statə unitə e abbiamo dimostrato la freddezza e la determinazione che hanno reso questo 25 Aprile un vero giorno di lotta. Grazie ancora a tutti e tutte, ci auguriamo sia solo il primo giorno di un lungo percorso.
Fiducia nello stato non ne abbiamo, l’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo.
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Alfredo Cospito e la vittoria

“Io sottoscritto Alfredo Cospito comunico di voler sospendere lo sciopero della fame”. Con questo schietto messaggio, scritto su un modello prestampato apposito per le comunicazioni fra detenuti e magistrati, il militante anarchico comunicava mercoledì scorso al Tribunale di Sorveglianza di Milano la sua decisione di tornare a mangiare. Dall’Ospedale San Paolo di Milano, Cospito finiva così 181 giorni in cui ha messo a vero rischio il proprio corpo — unico strumento a sua disposizione nell’isolamento in cui è costretto a vivere — per la lotta contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

Il giorno precedente, la Corte Costituzionale dichiarava l’incostituzionalità della norma applicata alla sua condanna, che impediva il riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti relative ai fatti contestati (due pacchi bomba a basso potenziale messi davanti alla caserma allievi carabinieri di Fossano che non hanno determinato morti, feriti o danni gravi), sulla cosiddetta recidiva reiterata. Finora, questa norma stabiliva l’automatica applicazione dell’ergastolo ostativo, che impediva a sua volta il riconoscimento dei benefici penitenziari — semilibertà, liberazione condizionale, permessi premio, ecc. — a* detenut* che non “collaborano con la giustizia”.

In altre parole, la Consulta ha fatto cadere la regola che ha consentito ai giudici di murare a vita Alfredo in carcere (e, con lui, chiunque altr* condannat* per gli stessi reati), senza consentire un eventuale sconto di pena basato sulla valutazione degli effetti concreti dei fatti attribuitigli.

Alfredo continuerà per ora ad essere rinchiuso nel 41bis, ma la scintilla della sua lotta ha prodotto questo significativo risultato, che porterà non solo alla revisione del suo processo, ma anche ad evitare che altr* possano subire la stessa sua sorte. Un risultato che, come ha detto qualcuna, “non è certamente una ‘vittoria’ dello stato di diritto o un ‘ritorno’ ai princìpi della costituzione, bensì un risultato conseguito dallo sciopero della fame e dal movimento di solidarietà internazionale sviluppatosi nell’arco degli ultimi 11 mesi”.

La vittoria non è un assoluto, ma una tappa che ogni tanto si riesce a percorrere lungo la strada. E oggi, nonostante tutto l’orrore che circonda questa vicenda, non possiamo non sentire un briciolo di gioia per questo obiettivo raggiunto.
Gioia perché la lotta paga, anche quando logora chi la porta avanti, come Alfredo, che forse non recupererà mai la sua capacità deambulatoria, causa i danni che la fame ha inflitto al suo sistema nervoso periferico.
La lotta paga e, talvolta, come oggi, riesce a superare la forza di una repressione di Stato sempre più pervasiva, di cui le condanne a rimanere “sepolti in vita” come certi apparati dello stato hanno provato a fare con Alfredo sono solo la punta della piramide. Nei livelli sottostanti si trovano il carcere “normale”, le infinite multe (sempre più care per questioni sempre più banali), i dispositivi legali “preventivi” (fogli di via, daspo, sorveglianza speciale), gli sgomberi degli spazi liberati, i divieti di manifestare, la censura nelle pubblicazioni, la militarizzazione dello spazio pubblico.
Alfredo Cospito, come tante altre prima, ci ha insegnato che tutto questo non rende impossibile lottare per ciò in cui si crede, che è ancora possibile scatenare ondate di solidarietà in modo trasversale, che l‘autoritarismo dello Stato, con tutta la sua potenza, non è onnipotente.
Quindi ringraziamo profondamente Alfredo, e tutte e tutti coloro che ogni giorno, anche lontano dai riflettori, si spendono, senza perdere la gioia di vivere, per generare mondi migliori dentro questo mondo di merda. Grazie.
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La questura di Trieste vuole vietare il corteo antifascista del 25 aprile

Quelle che vedete nella foto sono le prescrizioni consegnateci ieri da personale della digos di Trieste, con la quale a due persone scelte arbitrariamente dalla polizia si intima di “non porre in essere” alcuna manifestazione che si allontani da Campo San Giacomo, vale a dire di non fare il corteo del 25 aprile.

Se è lampante la gravità di un questore che vuole impedire un corteo antifascista proprio il 25 aprile – con la scusa del pericolo di arrecare disturbo alle celebrazioni in Risiera -, per noi questa ennesima dimostrazione della volontà di vietare e reprimere è irricevibile.

Abbiamo deciso di manifestare autonomamente il 25 aprile, giorno della liberazione dell’Italia dalle forze nazifasciste, perché per noi ritrovarsi in un luogo della Memoria al fianco delle forze politiche che governano questa città e questo comune non è un’opzione, poiché queste hanno la forma, la dialettica e l’ideologia del nuovo fascismo.

Ci preme sottolineare in particolare due cose.
La prima è appunto la contrapposizione che la questura per prima delinea tra la nostra iniziativa e le celebrazioni ufficiali del giorno della Liberazione, parlando a sprezzo del ridicolo di safety e security, quasi a dire che il 25 aprile nessunx (e noi in particolare) deve disturbare il siparietto in giacca e cravatta delle famigerate istituzioni democratiche, in gran parte incarnate da personaggi che il resto dell’anno non fanno neanche finta di non essere fascisti o loro alleati.

La seconda è il perimetro asfissiante che la polizia politica sta cercando di tracciare attorno a tutto ciò che gravita dentro, a fianco o anche solo nei paraggi della variegata comunità chiamata Burjana (si veda anche quanto successo a Trieste Hardcore).

Per la questura, il corteo antifascista non si deve muovere o può farlo ben lontano dal 25 aprile – fisicamente e temporalmente, come si può leggere. Altro che diritto a manifestare e altre favole.

Confermiamo e rilanciamo quindi con forza l’appuntamento di martedì in Campo San Giacomo alle 9: sarà ancora più importante esserci, per mostrare pubblicamente che per tante e tanti la stanca ritualità della Risiera non è mai stata sufficiente a celebrare e praticare l’antifascismo in un momento in cui farlo è più importante (e ostacolato) che mai. Decidiamo insieme, in piazza,come agire. La questura sta attaccando tuttx lx antifascistx. 

L’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo!
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25 Aprile – L’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo!

Negli anni del ritorno dell’ultra destra al governo, sempre più impegnata ad aggredire il diverso e reprimere chi manifesta il proprio dissenso, il presidente del Senato dichiara come nella Costituzione non ci sia alcun riferimento all’antifascismo e come il 25 aprile possa “mettere d’accordo tutt*”. (Caro Ignazio studia la storia: i partigiani, ai fascisti come te, sparavano, non ci si mettevano d’accordo!).

Negli ultimi mesi stiamo sistematicamente assistendo all’utilizzo e all’approvazione di leggi sempre più repressive: multe, pene carcerarie e forme persecutorie di ogni tipo colpiscono chiunque si dissoci dagli schemi imposti dallo Stato. Il tutto condito da minacce e atteggiamenti intimidatori di stampo mafioso che molt* di noi stanno vivendo quotidianamente sulla propria pelle. Sorvegliare è punire: ci ricorda qualcosa?

Nel frattempo l’amministrazione triestina dimostra ogni giorno il proprio disinteresse nei confronti di migranti e ultim*, negando strutture per diritto all’accoglienza ed assistenza a chi ne ha bisogno. Coerentemente, il sindaco Dipiazza intanto si presenta con il saluto romano, non ascolta cittadini e cittadine che si oppongono alle sue politiche e tratta il consiglio comunale come il suo feudo privato. E’ indegno che sia un personaggio del genere a condurre le celebrazioni che dovrebbero riportare alla memoria i valori dell’antirazzismo, dell’uguaglianza e della lotta all’oppressione. Nella rosa degli alti papaveri della politica regionale che il 25 sarà in Risiera, davvero pochi sono coerenti con quanto dicono nella vita di tutti i giorni. Usare le cerimonie per ripulirsi coscienza e immagine pubblica è la più fascista della azioni, svilisce la memoria di chi ha lottato e svuota di significato le parole che vengono spese a loro celebrazione.

Finchè le stesse istituzioni che si inginocchiano davanti ai lager nazisti finanziano i CPR in Europa e i centri di detenzione in Libia, Turchia, Israele, ogni celebrazione sarà una presa in giro e una vergogna. Infatti, per proteggere la fortezza Europa, i paesi membri (non importa governati da quale sfumatura di colore nell’arco parlamentare!) stipulano con paesi come Libia e Turchia accordi con lo scopo trattenere i migranti in condizioni disumane, sostenendo e finanziando attivamente respingimenti e torture ai confini.

Per questi motivi noi non vogliamo partecipare alle loro cerimonie ufficiali, non vogliamo che il giusto e doveroso ricordo dei morti dello sterminio nazifascista e delle lotte partigiane diventino una bandierina da esibire un giorno all’anno per ripulirsi la coscienza. Siamo antifascist* sempre ed il 25 aprile scendiamo in corteo per riaffermarlo chiaramente: l’antifascismo non è un evento da ricordare ma una necessità ancora purtroppo attuale.

Il 25 aprile ci vediamo alle 9 in Campo San Giacomo.
L’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo!

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Approfondimenti

Appunti su tortura e carcere in Italia

Condividiamo di seguito un testo scritto dall’Assemblea cittadina milanese contro il 41 bis e l’ergastolo in ocasione della chiamata di un presidio lo scorso 15 aprile davanti al carcere di Opera, “con un desiderio di vita per tutte e tutti che [guiderà] la nostra coscienza, lottando per un mondo che non ha bisogno di guerre, che non ammette sfruttati, che non trascura le sofferenze”.

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A fine marzo 2023, il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura ha pubblicato un rapporto sull’Italia dopo aver visitato anche alcune carceri in cui denuncia il sovraffollamento degli istituti (114%). Contemporaneamente l’associazione Antigone ricorda che “attualmente in Italia ci sono oltre 200 persone tra agenti, operatori e funzionari indagati, imputati o condannati per violenze e torture”. La relazione del Garante nazionale dei detenuti sul 41bis scrive che delle 740 persone detenute con questo regime 321 hanno più di 60 anni e 87 hanno più di 70 anni, nell’ultimo anno una decina di persone è morta in carcere, al 41bis.

Dati a cui va aggiunto il conto dei pestaggi, degli abusi e delle violenze compiute dalle forze dell’ordine nelle carceri italiane, che hanno causato 14 morti e centinaia di feriti nella primavera del 2020 e l’altissimo numero di suicidi che in questi ultimi anni stanno accadendo fra le mura: nel 2022 il numero è di 84 detenuti morti suicidi; in tutto il 2020 erano stati 58. L’inclemenza dei numeri restituisce l’immagine di un paese in cui il ricorso alle pene detentive è pratica di governo e motore di consenso. La popolazione carceraria invecchia, a causa di recidive e lunghe detenzioni, ma non mancano i giovani, condannati per reati di lieve entità, immigrati messi all’angolo dalle leggi sulla “clandestinità” che non vogliono, o semplicemente non possono, accettare il ricatto del lavoro sottopagato.

Nel frattempo, la crisi galoppa e l’inflazione riduce i già miseri salari; il conflitto Russia-Ucraina sposta risorse economiche al settore bellico e ripropone un modello di rappresentazione della realtà dicotomico già ampiamente praticato durante la pandemia: o sei con le scelte dello Stato (dei suoi governi) o sei un nemico, mettendo in ombra, come secondarie, tutte le contraddizioni reali che costituiscono il vissuto delle persone.

Il 20 ottobre 2022, Alfredo Cospito, iniziando uno sciopero della fame, individuale e ad oltranza, contro la durezza del regime carcerario a cui è sottoposto, facendone una battaglia per tutti quelli che come lui vi sono sottoposti, apre uno squarcio in questo quadro grigio.

La risposta immediata dei compagni e compagne più vicini ha innescato un importante interesse più generale sul tema. Azioni, presidi, manifestazioni, assemblee e convegni si sono moltiplicate sotto la parola d’ordine “a fianco di Alfredo, contro il 41bis, e l’ergastolo e la sua ostatività”.

Con la sua lotta, Alfredo pone delle questioni generali importanti che sorprendono e non lasciano indifferenti neanche quei settori della cosiddetta “società civile” che si rifanno ad una mutevole concezione dello Stato di Diritto, dell’equilibrio della pena, dei princìpi Costituzionali. La lotta di Alfredo li chiama ad esprimersi, a far uscire dai circuiti specialistici dubbi e certezze.

Così, mentre il governo e parte dell’apparato mediatico cercano di contenere la questione relegandola ad un conflitto tra “la galassia anarchica” (sic!) e lo Stato, lo squarcio aperto da Alfredo si allarga e una gran quantità di galassie mostrano l’immagine di un sistema di governo penale che oppone il carcere alle contraddizioni sociali che non vuole o non sa risolvere.

Per inciso – e per pura coincidenza temporale – questo svelamento trova supporto nell’esito delle due vicende che hanno coinvolto Italia e Francia, l’operazione Ombre Rosse, in cui l’Italia chiedeva a distanza di 40 anni l’estradizione di 10 esuli rifugiatisi in Francia negli anni ‘80, e la richiesta di arresto europeo nei confronti di Vincenzo Vecchi, condannato per il reato del codice fascista di “devastazione e saccheggio” per i fatti di Genova 2001.

Ma il lupo perde il pelo ma non il vizio e mentre Alfredo conduce la sua battaglia per l’abolizione del 41bis e dell’ergastolo ostativo, mentre una tanto diffusa quanto eterogenea solidarietà internazionale lo sostiene ed affianca nella denuncia di queste pratiche di vera e propria tortura, il governo risponde con una serie di provvedimenti che mirano ad un incremento degli ambiti della sfera penale.

Ricordiamo che l’attuale governo ha esordito con una norma sfornata in gran fretta contro i “ravers”, facilmente applicabile a raduni e, perché no, a manifestazioni di dissenso di vario genere. Poi ha cercato consensi invocando carcere per i cosiddetti scafisti, il carcere per le borseggiatrici e i loro bambini, il carcere per gli occupanti di case, legifera pene fino a 3 anni per gli attivisti ambientali e, come ultime in ordine di tempo, le proposte di cancellazione o “ridefinizione” del
reato di tortura (per permettere alle forze dell’ordine di fare il loro lavoro) e all’assunzione di nuovo personale di polizia.

In una fase in cui la crisi economica internazionale manda in tilt il ciclo di produzione e consumo, allargando le fasce di povertà, la risposta del sistema, in difesa di se stesso e dei pochi potentati economico/finanziari di cui è espressione e strumento, è una invocazione emergenziale alla guerra: guerra ai virus, guerra negli scenari internazionali, guerra ai miserabili, meglio se immigrati e neri, vittime di risulta di una macchina sociale che non funziona. Guerra ai dannati della terra. E si sa, ogni guerra ha le sue armi, che siano manipolazioni genetiche, droni e missili sofisticati, leggi speciali e/o carceri ancora più dure.

È una cultura di guerra e di dominio che si diffonde nelle scuole, con l’orrendo connubio del ministero dell’Istruzione con quello della Difesa per condire di militarismo l’educazione dei più
giovani. È la guerra che attraversa il mondo del lavoro con il costante succedersi di vittime ed “incidenti” causati da incuria e brama di profitto, dove gli operai vengono denunciati perché scioperando rallentano la produzione, ed è guerra che atterra sulla società diffusa punendo il dissenso, la sofferenza, il disagio, il bisogno.

Hai rubato e sei povero? Ti viene tolto il sussidio. Sei malato e non puoi pagare? Aspetta. Manifesti davanti al posto di lavoro? Sarai denunciato per aver danneggiato il ciclo produttivo. Occupi una
casa popolare vuota e destinata a restare tale? Sei colpevole di “associazione a delinquere” e così via.

Altro è lo spirito che guida la nostra lotta. È con un desiderio di vita che Alfredo ha iniziato ormai sei mesi fa, il 20 ottobre 2022, lo sciopero della fame e un fortissimo attaccamento alla vita lo ha accompagnato fino ad ora: “Non è vita in 41bis”, scriveva.

È con un desiderio di vita, di una vita vera a migliore, che andremo davanti al carcere di Opera per lanciare un messaggio a chi, recluso, attende la risposta alle sue domande, aspetta per le cure mediche, per i libri, la corrispondenza, a chi non può dare un senso all’esistenza e cerca la libertà. E sarà con un desiderio di vita per tutte e tutti che guideremo la nostra coscienza lottando per un mondo che non ha bisogno di guerre, che non ammette sfruttati, che non trascura le sofferenze.

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[16/4] Dibattito sulla guerra e sviluppo tecno-scientifico

C’è una guerra alle porte di casa nostra. Un conflitto che, come tutte le guerre, si porta dietro una scia di devastazione, mort*, ferit*, esul*. Una guerra voluta dall’alto e i cui effetti ricadono, come sempre, sulla popolazione.

È solo l’epicentro di una mobilitazione bellica che tra logica del riarmo, accaparramento di risorse, militarizzazione dei territori, disciplinamento del corpo sociale, investe ogni aspetto della vita e della produzione.

Ma quali sono gli interessi in campo? Chi ci guadagna? In quale modo sono coinvolte le industrie, le aziende e gli istituti di ricerca? Cosa possiamo fare noi?

Ne discuteremo assieme a partire dalla presentazione dell’ opuscolo “Nel vortice della guerra” (potete scaricarlo e leggerlo qua).

Ci vediamo domenica 16 aprile alle ore 17 a San Giusto (Trieste)!

 

 

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[25/04] Corteo antifascista!

Ha senso parlare di antifascismo oggi, nel 2023? Per noi è indispensabile, perché i fascisti ci sono, volantinano davanti alle scuole senza problemi, aprono e frequentano le loro sedi indisturbati. I fascisti da anni si sono infiltrati nelle istituzioni, in un processo arrivato fino all’insediamento del governo Meloni. Siamo consapevoli che quello attuale sia l’esecutivo più fascista dal dopoguerra ad oggi, lo vediamo ogni giorno a partire dai decreti attuati: da quello anti-rave al decreto flussi, fino alla flat-tax.

Essere antifascisti, però, non può essere solo una risposta all’attuale governo: non dimentichiamo, per esempio, il decreto Minniti, targato Partito Democratico, partito che quando ha governato ha contribuito alla repressione sociale esattamente come i governi di destra.

L’antifascismo non può essere e non si può limitare a sostenere un’opposizione parlamentare che non mette in discussione lo stato liberale e anzi partecipa alla macchina dell’oppressione, arricchendo i ricchi e le multinazionali a discapito de* sfruttat* e dell’ambiente.

Combattere il fascismo è combattere un sistema autoritario, patriarcale e capitalista. I fascisti che si professano anti-sistema non sono altro che quelli che il sistema lo fanno stare in piedi. Lo vediamo nella loro guerra verso l* migranti o verso chiunque sia fuori dalla norma, fomentando una guerra fra poveri che punta il dito verso chi è più povero di te invece che su chi è al vertice. Lo vediamo quando, oggi come ieri, si prestano a fare da manodopera per i padroni, attaccando i picchetti operai in lotta fuori dai cancelli delle fabbriche.

L’antifascismo, quindi, deve essere anticapitalismo che cerca di costruire reti di mutualità e pratiche slegate da dinamiche verticistiche e oppressive. Contro la repressione dello Stato verso chi cerca di costruire un modo diverso di stare insieme, liberi e fuori dalle logiche consumistiche, ma viene represso con denunce, multe e sgomberi. Dagli spazi occupati che vengono sgomberati, al movimento No Tav da oltre trent’anni sulle barricate, fino ad arrivare alla vicenda di Alfredo Cospito, murato vivo nel 41 bis e condannato a morte dallo Stato per le sue idee.

Per questo e per altro il 25 aprile ci vedremo a San Giacomo alle ore 9 con l’obiettivo di costruire un corteo antifascista verso la Risiera calato nel presente e fuori da ogni stanca ritualità.

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[AUDIO] Di complotti, reincanto e lotte // Conversazioni con Wu Ming 1 + Reading/Concerto Ufo 78

Con un leggero ritardo, condividiamo l’audio dell’incontro che abbiamo organizzato lo scorso 3 marzo con Wu Ming 1, per chi non è riuscita ad entrare in sala (eravate davvero tante!) e per chi non è riuscita a venire.

Oltre al bellissimo reading/concerto di due capitoli di Ufo 78 — sui bassi e gli effetti di Luca Demicheli —, l’audio include la conversazione che abbiamo avuto con Wu Ming 1 dove, partendo dall’ultimo libro del collettivo bolognese e dalla Q di Qomplotto, traiamo spunti e riflessioni su diversi temi.

Un contributo per arricchire molte delle discussioni che preoccupano chi agisce politicamente dal basso e un tentativo di cercare nuovi modi di interagire con le rivolte presenti e future, lontano da dogmatismi e settarismi.
Buon ascolto!

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Riflessioni da Sainte-Soline

I cosiddetti “megabacini” (megabassines) sono giganteschi laghi artificiali — plastificati e che quindi isolano l’acqua immagazzinata dall’habitat circostante — moltiplicatisi negli ultimi anni in Francia per rispondere ai bisogni dell’industria agroalimentare e presentati dai poteri pubblici come una soluzione per adattarsi ai cambiamenti climatici. Con una dimensione fra gli 8 e i 18 ettari, vengono riempiti durante l’inverno per permettere l’innaffiamento dei campi durante i periodi di maggiore stress idrico. Il loro riempimento non avviene soltanto raccogliendo l’acqua della pioggia, come spesso vogliono far credere i loro promotori, ma anche pompandone dalle falde acquifere e dai fiumi vicini. Viene così fortemente alterato l’equilibrio idrico dei territori, attraverso il “furto” di acqua da certe terre e generando una perdita netta dovuta all’evaporazione dai megabacini (stimata fra il 20% e il 60%). Per questi motivi, i progetti dei megabacini vengono considerati, da diversi movimenti ecologisti francesi, come una vera e propria “fuga in avanti” per mantenere a ogni costo un modello agroindustriale devastante per i territori e per chi li abita.

La costruzione di uno di questi megabacini ha messo Sainte-Soline, comune del centro-ovest francese di 350 abitanti, al centro delle proteste ecologiste. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo diverse manifestazioni nella zona del cantiere, fino ad arrivare alle giornate del 25 e 26 marzo, dove circa 30.000 persone si sono radunate per mostrare la loro opposizione a questo progetto e a ciò che esso rappresenta.

Una di noi era là, e ha voluto raccontare la propria esperienza e i propri pensieri, che condividiamo di seguito.

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Sainte-Soline è stata una vera e propria battaglia. Ma non è stata soltanto questo: è stato anche un momento di unità e rabbia tra movimento ecologista e militanti provenienti da tutta la Francia e da tutta l’Europa, è stata un momento di profondi dibattiti e riflessioni sull’urgenza di agire, sabotare, lottare per il clima, per l’acqua, per le pensioni, per le nostre vite. Lo scorso 25 marzo, Sainte-Soline è stata lo specchio della potenziale forza delle masse, ed è stata lo specchio di cosa lo stato democratico sia disposto a fare pur di difendere il proprio potere. Sì, perché non era quel bacino in costruzione che quei tremila poliziotti e le sue cento camionette avevano il compito di difendere, ma il potere di uno stato che fa difficoltà a mantenere il controllo sul proprio territorio, sulle proprie strade, e anche sui propri luoghi e dispositivi di potere (ad oggi in Francia non bruciano solo i bottini dell’immondizia, ma anche alcuni municipi e camionette della polizia).

Dopo il campeggio, le assemblee e i blocchi di strade e di binari che si sono tenuti il venerdì, tre cortei sono partiti il sabato mattina. Uno (rosa) che voleva essere uno spazio sicuro per chiunque, uno (blu) mirato ad attuare dei sabotaggi prima di attaccare il bacino e l’altro (giallo) che puntava direttamente al bacino.

All’arrivo in prossimità del bacino, davanti allo schieramento militare che si stagliava davanti a noi, l’agitazione si sentiva palpabile e si esorcizzava a battiti di mani, cantando a piena voce all’unisono, al suono di tamburi, trombe, fisarmoniche e chissà quale altro strumento che qualche mattə aveva portato con sé. La forza della rabbia collettiva riecheggiava ovunque e permetteva di avanzare — tenenendosi per mano per tirarsi fuori vicendevolmente dal fango — un gruppo compatto, sospinto da ideali e non dagli ordini di un qualsiasi capo-reparto che ne decidesse le sorti.

I lacrimogeni hanno iniziato a volare ovunque fin da subito, così come gli idranti e le granate. E due parole sulle granate vanno spese, perché per chi, come me, in Francia non ha mai partecipato ad una piazza, sono state qualcosa di raggelante. I poliziotti francesi dispongono di due tipi di granate: quelle sonore (flashbang o stun grenade), che esplodono stordendo, e quelle dette “di désencerclement” (letteralmente “di disaccerchiamento”), vere e proprie granate a frammentazione che al momento dell’esplosione lanciano pezzi di caucciù tutto attorno a sé, infilzando braccia, gambe, occhi o qualsiasi cosa becchino a chi ci stia attorno. L’utilizzo di queste armi ha già causato morti e mutilazioni in Francia e da quanto ci dicevano sono state utilizzate in maniera sempre più normalizzata dal dilagare del movimento dei gilets jaunes in poi.

Arrivati al bacino, mentre il corteo giallo avanzava e premeva contro il cordone della polizia, il corteo blu è riuscito nell’intento di sabotaggio, distaccando un tubo enorme che poi è stato utilizzato come ariete (ops!). Da quel momento è partito l’assalto collettivo al cantiere e la vera e propria guerriglia. Da una parte, c’era una pioggia costante di lacrimogeni e granate, sia vicino che a distanza (anche sui feriti), sparati in aria e ad altezza uomo, mentre dall’altra si rispondeva con nugoli di pietre  e non solo, finendo con camionette e poliziotti in fiamme.

La prima linea del cantiere è venuta giù, ma sfondare era pressocché impossibile per la nube costante di lacrimogeni, che impediva a chiunque non avesse una maschera anti-gas di avvicinarsi. L’avanzare e retrocedere è proseguito per un bel po’, finché membri della Brav-M (Brigate motorizzate di repressione di azioni violente) non sono arrivati con i quad a sparare lacrimogeni e granate da dietro, causando un certo allentamento della pressione da parte dei manifestanti. In quel momento si è deciso di fermarsi per lasciare spazio al soccorso dei feriti. Si è valutato poi che la quantità di feriti era troppo grande e i medici troppo pochi quindi, nonostante gran parte delle persone volesse riattaccare il cantiere, si è deciso di ritornare indietro, andando a sabotare altre tubature e pompe un po’ più distanti dal bacino (non senza qualche altro momento di lanci di pietre e materiale pirotecnico, espressione delle varie anime della piazza, uno spontaneismo che significa anche prendere decisioni e stare in piazza in maniere diverse).

Nel frattempo, nelle retrovie alcune compagne e compagni avevano costruito una serra per un agricoltore della zona, a dimostrazione che le nostre forze erano così distruttive quanto propositive. E la parte propositiva è continuata nella serata in cui il vicino comune di Melle (3600 abitanti) è diventato casa per migliaia di militanti che hanno dormito nei parcheggi e nei prati del paese e hanno animato, danzando, la piazza in cui erano allestiti due mega tendoni e diversi bar, punti ristoro, un punto viola, una zona bagni con vecchiettə h24 lì a pulire e distribuire carta igienica, banchetti di associazioni e gruppi e di diffusione di materiale informativo su qualsiasi tema: dal Rojava al nucleare, dalle pensioni all’antifascismo.

Dal palco, a un certo punto, sono intervenute le organizzatrici. Ci sono state lacrime per i compagni e le compagne in pericolo di vita [ad oggi c’è ancora almeno una persona in coma, ndr], c’è stata la rabbia e il voler comunque rivendicare ogni passo fatto assieme e il non fermarsi della lotta. È stato anche espresso il desiderio di far arrivare a tutte le compagne presenti, provenienti da tutta la Francia e l’Europa, l’idea che ciò che è stato fatto a Sainte-Soline può riprodursi e moltiplicarsi in ogni angolo: le manifestazioni, i sabotaggi, le assemblee, la creazione di materiale informativo, la convergenza delle lotte, tutto.

Il giorno seguente, quel villaggio collettivo improvvisato ha ripreso vita tra caffè, pranzi sociali ad offerta libera e dibattiti. Assemblee di centinaia di persone hanno riempito il teatro, il cinema e varie sale di Melle dove vecchiettə e giovani, contadinə e militanti queer, operaiə, anarchichə, comunistə, sindacalistə e chiunque altro, quasi tuttə copertə di fango, hanno intessuto dibattiti e discussioni su come continuare ad agire sul mondo. All’assemblea a cui abbiamo partecipato noi, una signora anziana ha preso parola e, piangendo, ha chiesto scusa per non aver avuto il coraggio di stare davanti durante il corteo, ringraziando chi per lei l’ha fatto, e ha aggiunto che da persona non violenta non ha potuto che festeggiare quando la prima camionetta ha preso fuoco.

Sono quelle realtà, come in Val Susa, che ti colpiscono, facendoti capire come tante persone, dopo aver vissuto sulla propria pelle la violenza dello stato, aver visto le devastazioni delle proprie terre e della propria casa e le ferite dei compagni e compagne di strada, scelgono che il momento del rispetto per chi decide coscientemente di massacrarti è semplicemente finito.

Il bilancio dei due giorni è stato vario. Il movimento si è preso il suo spazio, ha dato una chiara prova di forza e ha creato momenti di condivisione e dialogo. La copertura mediatica della sua presenza – e anche degli abusi polizieschi – è stata ampissima. Chiunque sia statə lì in quei giorni è tornatə a casa con una forza dentro che probabilmente non sentiva prima, e penso sia anche questo lo scopo di ritrovarsi e camminare assieme: sentire di non essere solə in questa lotta impari contro lo schifo di questa società.

Dall’altra parte, ci sono risvolti negativi: lo stato francese, davanti alla forza del movimento ecologista, così come davanti alla forza del movimento contro la riforma delle pensioni, ha tirato dritto e sembra non farsi scalfire, anzi, risponde con una violenza sempre più inaudita, con buona pace dei diritti umani, leggi, convenzioni, costituzioni e valori democatici. Nel caso di Sainte-Soline impedendo addirittura l’arrivo delle ambulanze per un’ora e trenta, mettendo a serio rischio la vita di almeno due persone, una delle quali intubata sul posto dopo ore di attesa.

Una persona ha perso l’utilizzo di un occhio, altre due sono finite in coma a lottare per la vita in ospedale, e centinaia sono state ferite e/o hanno vissuto vari stati di shock.

La domanda allora sorge spontanea: vale la pena morire o restare mutilatə a vita per lottare contro un bacino idrico? E per un treno ad alta velocità? Per due anni di pensione che tanto non vedremo mai? Per bloccare un G8? Zittire un fascista? Occupare una casa? Forse per una singola di queste cose no, ma per tutto, per tutto sì. Perché se non fossimo dispostə a mettere in gioco le nostre vite e le nostre fedine penali per ogni singola azione, non faremmo più nulla e il vuoto del decoro, l’oppressione del capitale e lo strapotere delle classi dominanti non avrebbero più argini.

Nonostante le contradizioni, non posso proprio pensare che sia stato sbagliato assaltare quel cantiere, così come sabotarne le tubature in mezzo a granate e lacrimogeni che piovevano da ogni dove. Questo modo di agire — che è dilagato in Francia nelle ultime settimane — ha generato rapporti di forze sbilanciati, per una volta, verso il lato di chi lotta dal basso e non di chi reprime. Per quello non vedo alternative alle scelte prese a Saint-Soline, perché legge formale e legge materiale sono due cose ben diverse. Basta guardare anche l’Italia, in cui le leggi scritte sono abbastanza omogenee ovunque, ma poi ogni regione e città ha dinamiche completamente diverse basate, appunto, sui rapporti di forza stabiliti: dalla possibilità di occupare spazi abbandonati all’applicazione della repressione amministrativa, dalle limitazioni delle questure alla libertà di manifestazione alla presenza più o meno invadente delle forze dell’ordine in determinati quartieri.

Se nel momento di massima repressione di una piazza la risposta è un passo indietro per paura, la repressione ha già vinto. Dovremmo invece essere sempre capaci di ingoiarci le lacrime, ragionare sugli errori e rilanciare in maniera sempre più determinata e ancora più efficace.

La forza di questi due giorni a Saint-Soline non è stata solo nelle molotov come non è stata solo nelle assemblee, ma bensì nella sua interezza: dallo sfidare i posti di blocco in entrata e in uscita, autorganizzandosi attraverso un’infoline, alla cura messa nel creare dei momenti di decompressione e sostegno psicologico, all’autogestione degli spazi, all’attenzione verso quei prati su cui nemmeno una sigaretta trovavi a terra (in mezzo a quattromila bussolotti di lacrimogeni e granate!), alle bande che

suonavano in mezzo alle cariche così come in serata, alle mediche che correvano da tutte le parti, cadendo nel fango in continuazione pur di prestare soccorso.

In una delle assemblee, qualcuna ha detto che non ha senso chiedersi che mondo vorremmo domani perché lo stavamo costruendo in quel momento nell’azione: con il mutualismo, con la solidarietà, con il sostegno alle produzioni dal basso, con l’autotutela collettiva, con la forza che ci davamo vicendevolmente. Penso stia tutto lì. A Sainte-Soline, come in altre situazioni del genere, quel mondo diverso che di solito riusciamo a creare in piccoli gruppetti e piccoli spazi, è stato davvero qualcosa di largo, partecipato e tangibile, ed è la cosa più forte con cui ritorno nella ridente Trst.